Urbani se ne va, anzi no

Urbani se ne va, anzi no

di Paolo De Andreis - L'ex ministro sarebbe ora diretto all'ultimo piano di viale Mazzini: dietro di sé lascia un ricordo imperituro che val la pena di testimoniare
di Paolo De Andreis - L'ex ministro sarebbe ora diretto all'ultimo piano di viale Mazzini: dietro di sé lascia un ricordo imperituro che val la pena di testimoniare


Roma – Urbani se n’è andato. Nelle ore immediatamente precedenti alla formazione del nuovo governo Berlusconi la notizia aveva iniziato a circolare: “Urbani andrà alla RAI”. E poi una prima conferma: Giuliano Urbani non è più ministro ai Beni culturali nel nuovo Esecutivo, e al suo posto viene parcheggiato Rocco Buttiglione.

Urbani, entrato nella storia della rete come un elefante tra preziosi cristalli di un negozio d’arte, come Ministro non potrà più ridurne altri in polvere: dopo il varo del Decreto Urbani, contestato non solo per i suoi contenuti ma anche per le modalità con cui è divenuto Legge, Urbani ha rappresentato per molti in rete il principale avversario delle libertà digitali, l’alfiere del vecchio ordine che cerca di imporsi sul nuovo disordine creativo del digitale. Ed è per questo che, cosa del tutto inedita per un ministro italiano, è stato bersagliato persino da un un netstrike .

Dietro di sé Urbani lascia “morti e feriti”, la certezza del diritto anzitutto, schiacciata non solo da una normativa contraddittoria ma anche dalle singolarissime dichiarazioni del Ministro stesso: prima ha chiesto ai senatori di votare come sanno che non si deve fare e poi, all’indomani dell’approvazione, ha candidamente confessato di essersi riscoperto mammista , per spiegare che nonostante quanto scritto sulla propria Legge nessun magistrato avrebbe mai disposto il carcere per un ragazzo che ha scaricato un file da Internet.

Di Urbani, lo stesso Ministro che in Senato promise che avrebbe corretto queste “pagliuzze” del carcere per un mp3, avevamo chiesto le dimissioni : all’insipienza della normativa che porta il suo nome s’era infatti aggiunta la farsa delle modifiche alla stessa, un lungo tour di rinvii e dichiarazioni che avrebbe dovuto portare alla cancellazione del penale per gli utenti del file sharing, cancellazione passata poi in cavalleria come tutte le promesse enunciate al Senato.

Dinnanzi alla dismissione di Urbani dal ministero dei Beni culturali ci sarebbe quindi da festeggiare, se non fosse per questo problemino della presidenza RAI che fa assomigliare la dipartita dal Ministero a qualcosa di ben diverso da un siluramento.

Al di là delle facili battute (presto tre anni di carcere per chi non paga il canone?) c’è infatti da chiedersi se davvero non vi sia nome più autorevole per il delicato ruolo di presidente RAI, se questo debba davvero venir ricoperto da un ex ministro che non ha saputo mediare le pretese delle grandi industrie dell’intrattenimento con le esigenze del nuovo e più importante medium esistente. La superficialità con cui l’intera questione del diritto d’autore nell’era digitale è stata trattata rischia di tradursi in un premio come la presidenza RAI e questo potrebbe facilmente scatenare le malelingue, a caccia di qualsiasi pretesto per malignare su ciò che può portare un personaggio come Urbani al vertice della radiotelevisione di Stato.

Sebbene si tratti di un’azienda legata perlopiù ai vecchi media e alle loro nuove incarnazioni nel digitale, saperlo alla guida di quel colosso finanziato dai contribuenti certo non potrà rasserenare gli animi. Ma la strada, dicono i più informati, parrebbe decisa: Urbani avrebbe infatti confessato di aspirare da sempre alla poltrona in pelle umana dell’ultimo piano di Viale Mazzini.

Paolo De Andreis

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Pubblicato il
26 apr 2005
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