Il Governo statunitense continua a guardare con estrema cautela alle possibili operazioni di cyberwar, stando a quanto si apprende da alcune dichiarazioni di anonimi ex collaboratori dell’amministrazione Bush: la paura è quella di non considerare appieno i possibili effetti collaterali, rischiando di creare danni su scala internazionale. Nel mentre, sul campo di battaglia più classico, le autorità dell’esercito USA vietano ai soldati l’utilizzo dei social network.
Secondo le ultime indiscrezioni , raccolte in cambio dell’assoluta anonimato dal New York Times , nonostante la sempre crescente consapevolezza della tecnologia, in tempi recenti gli alti funzionari dell’amministrazione di George Bush avrebbero tentennato nel mettere a segno un cyberattacco.
I fatti risalgono al 2003, periodo in cui gli Stati Uniti si preparavano allos contro con l’Iraq: secondo le gole profonde, al Pentagono si vagliava l’opportunità di congelare la rete bancaria di Saddam Hussein, togliendogli così l’opportunità di rifornirsi di truppe ed armi in vista dell’imminente attacco sul paese orientale. Invece non se ne fece nulla, anche se come dichiarato da un ufficiale statunitense “sapevamo di poterlo fare, perché avevamo i mezzi per farlo”.
La motivazione per il mancato via libera all’operazione risiede nella paura diffusa negli ufficiali del Governo statunitense di creare un vero e proprio danno esteso non solo all’Iraq, ma anche ai paesi vicini e persino all’Europa. Se è vero che, stando alle cronache, nell’imminenza dell’attacco l’intelligence statunitense ha colpito il cuore delle comunicazioni nemiche, sarebbe anche vero che il timore di paralizzare sistemi vitali alla funzionalità di ospedali avrebbe scongiurato un attacco più profondo, mirato all’immobilizzazione dei sistemi informatici. “Se non si conoscono le conseguenze di un attacco che coinvolga terze parti non interessate direttamente, diventa molto difficile autorizzare l’operazione stessa” commenta James Lewis, esperto in cyberwarfare presso il Center for Strategic and International Studies di Washington.
Negli USA la questione ha suscitato un fervente dibattito tra gli addetti ai lavori: da una parte si critica il Governo per la troppa cautela, mentre dall’altra si ironizza sul paradosso che vorrebbe le forze statunitensi restie nell’effettuare un cyberattacco più di quando si tratterebbe di sganciare ordigni veri e propri: “Chi decide le strategie sembra essere tremendamente sensibile nel considerare i danni collaterali procurati da armi virtuali, mentre sembra non interessarsi abbastanza dei danni procurati dalle armi convenzionali” polemizza John Arquilla, esperto di strategia militare presso la Naval Postgraduate School di Monterey.
La situazione non sarebbe cambiata neanche con l’ingresso alla Casa Bianca di Barack Obama, presidente che sembra però interessato anche ad innalzare il livello di difesa informatica della nazione. Nel mentre, sul campo di battaglia reale, le truppe dell’esercito statunitense sono state letteralmente tagliate fuori dall’accesso ad alcuni dei più popolari social media come Twitter, Facebook e MySpace. Un’azione necessaria, secondo le autorità militari, che avrà una durata effettiva di un anno, e che è stata voluta onde prevenire l’esposizione delle truppe a contenuti ritenuti non idonei, nonché per evitare le fughe di notizie.
Vincenzo Gentile