Un sistema di rimozioni più efficace, che non ponga limiti alle richieste dei detentori dei diritti, che sappia scoraggiare i condivisori che operano nell’illegalità e i servizi che li sfruttano per spremere denari da opere protette: le istituzioni statunitensi, nel corso di una consultazione centrata sui procedimenti di takedown previsti dal Digital Millennium Copyright Act, hanno raccolto le testimonianze di un’industria dei contenuti che vorrebbe mettere al servizio della legge tutti gli intermediari della Rete.
“La mia vita è minacciata dalla distribuzione illegale del mio lavoro – ha denunciato di fronte ad una commissione del Congresso la musicista Maria Schneider – e non ho modo di frenarla”. Racconta delle ore trascorse in Rete per individuare gli snodi in cui le violazioni si moltiplicano, per compilare richieste di rimozione da inviare alla piattaforme che ospitano illegalmente le sue opere. Quando le richieste non restano inevase, le rimozioni non hanno altro effetto che quello di far fluire altrove i brani della musicista, a disposizione di chiunque voglia approfittarne. “Un mondo alla rovescia”, così Schneider descrive il quadro tracciato dalla sezione del DMCA che stabilisce le regole della tutela del diritto d’autore in Rete, un mondo in cui “gli oneri ricadono non su chi viola la legge, ma su coloro che tentano di far valere i propri diritti”.
Si tratta di un nodo che attanaglia altri detentori dei diritti, dalle case editrici come Elsevier all’onnipresente RIAA , in prima linea a rappresentare gli interessi dell’industria della musica statunitense: tutti si mostrano concordi nel proporre un sistema di notice and takedown che carichi di maggiore responsabilità le piattaforme che ospitino i contenuti, che fanno di questi contenuti il carburante del proprio modello di business. Si invocano dunque con disinvoltura sistemi di pubblicazione selettiva che sappiano filtrare all’origine i contenuti di cui i detentori dei diritti abbiano già chiesto una rimozione, prendendo a modello quanto YouTube fa per i video a mezzo di Content ID e applicando per estensione lo schema ad ogni tipo di file.
E se la piattaforme che ospitano i contenuti non dovessero mostrarsi collaborative? Basta moltiplicare gli intermediari e le responsabilità , suggerisce il vecchio adagio di RIAA. Google, già operosa nell’accondiscendere al volere dell’industria, secondo il CEO Cary Sherman dovrebbe collaborare di più e in maniera più attiva, accogliendo richieste di rimozione capaci di interrompere i collegamenti con tutti i file di un sito che violano il copyright e non solo con una limitata prozione di essi, evitando di reindicizzare i contenuti rimossi e ricomparsi online, declassando i risultati provenienti da siti sospetti, a favore dell’offerta legale.
Google, da parte sua, ritiene che il quandro legale statunitense sia già equo ed efficace: all’industria dei contenuti, spiega al Congresso, basterebbe potenziare l’offerta legale per essere premiata dagli algoritmi dei motori di ricerca e dalla scelta delle platee connesse.
Piuttosto, da Mountain View giunge un monito riguardo agli abusi, affiancandosi alla testimonianza di Automattic, che già in passato si era schierata per difendere la libertà di espressione sulla propria piattaforma WordPress: non è raro che le richieste di rimozione avanzate nel nome della tutela del copyright nascondano motivazioni insidiose, e l’intento di soffocare le voci sgradite. Per questo motivo, nell’aggiornare le previsioni legislative, sarebbe opportuno potenziare il meccanismo del contraddittorio a favore di coloro che siano vittima di rimozioni inique. E magari scoraggiare gli abusi con delle punizioni che facciano davvero paura.
Gaia Bottà