La condivisione mediata da servizi di P2P è per sua natura aperta alle curiosità dei cittadini della Rete, e non fanno eccezione le forze dell’ordine che indaghino sullo scambio di materiale pedopornografico.
A stabilirlo, una sentenza emessa da una corte del Vermont, che ha respinto la contestazione di tre uomini accusati di detenzione di materiale frutto di abuso sui minori. I tre, sospettati per aver condiviso i contenuti a mezzo P2P, si erano scagliati contro gli strumenti impiegati dalla forze dell’ordine: denunciavano una violazione della privacy legata all’ uso di strumenti di rastrellamento automatico di indirizzi IP . Si tratta in particolare di un software in uso da tempo presso le forze dell’ordine di mezzo mondo, Child Protection System: con lo scopo di tracciare i traffici di immagini pedopornografiche, sfrutta i client p2p per effettuare ricerche basate su parole chiave sensibili, individua i file sulle macchine del peer , verifica l’hash univoco dei contenuti e memorizza gli indirizzi IP che mostrano di condividere e quindi di possedere il file.
Secondo i tre uomini Child Protection System, che ha individuato sulle loro cartelle condivise dei file pedopornografici, sarebbe uno strumento imbracciato per condurre delle perquisizioni illegali, ricerche che hanno fornito delle prove utili agli investigatori per sollevare il “ragionevole sospetto” nei loro confronti e ottenere così le autorizzazioni necessarie a portare avanti le indagini, anche fuori dalla Rete.
Il tribunale ha però respinto la richiesta dei tre uomini di invalidare le prove raccolte a mezzo CPS. Nessun accesso alle macchine dei tre uomini, nessun download, nessuna violazione della privacy: CPS si limita a rintracciare gli hash di file illegali condivisi pubblicamente , e la raccolta degli indirizzi IP effettuata per mezzo del software secondo il giudice Christina Reiss non costituisce una perquisizione irregolare . “Intenzionalmente o non inavvertitamente – ha spiegato il giudice – attraverso l’uso di software peer-to-peer dedicato al file sharing, hanno mostrato pubblicamente delle informazioni che ora ritengono siano private”: non servirebbe il mandato per raccogliere dei dati visibili a chiunque utilizzi un client P2P, quali i file contenuti nella cartella dedicata ai file condivisi e l’indirizzo IP della postazione da cui si opera. Il mandato sarebbe necessario successivamente, per provare ad identificare il responsabile e procedere alle perquisizioni vere e proprie.
Il P2P, dunque, rappresenterebbe una porta aperta, e non servirebbe l’autorizzazione della magistratura per andare alla ricerca di ciò che è pubblico: questo l’orientamento del giudice Reiss, così come quello di altri rappresentanti della giustizia statunitense che si sono trovati a decidere riguardo alla validità di indizi di reato individuati scandagliando le reti P2P, violazioni di copyright comprese .
Gaia Bottà