La giustizia statunitense non perdona la pedopornografia, anche se questa dovesse essere solamente simulata: è quanto ha stabilito la Corte di Appello statunitense per il Sesto Circuito, che ha condannato Dean Boland al pagamento di una pena pecuniaria pari a 300mila dollari (circa 236mila euro), come risarcimento alle famiglie di due adolescenti le cui immagini erano state manipolate al computer in modo da mostrarli in pose licenziose.
Il pronunciamento della Corte di Appello conferma il precedente giudizio della corte distrettuale dell’Ohio, che ha riconosciuto l’imputato colpevole di aver danneggiato col proprio comportamento le vittime di pedopornografia simulata . Tra il 2004 e il 2005, Boland , di professione avvocato con competenze informatiche, ha scaricato da un sito web le foto di due bambine di cinque e sei anni per poi ritoccarle in modo da renderle sessualmente esplicite. Le immagini manipolate sono state utilizzate all’interno di due dibattimenti giudiziari in Ohio e Oklahoma, in cui Boland figurava come difensore di due soggetti accusati di reati connessi alla pornografia infantile, per dimostrare come fosse “impossibile per una persona che non ha partecipato alla creazione dell’immagine capire che il soggetto ritratto sia un minore”.
Una condotta professionale considerata sospetta, tanto da far scattare le indagini del FBI e una causa civile intentata dalle famiglie delle due vittime che avanzavano la richiesta di risarcimento dei danni. Da parte sua, Boland aveva dichiarato di essere innocente per aver creato le immagini a uso e consumo della corte, senza distribuirle al pubblico presente in aula e per questo protetto dal diritto alla libera espressione sancito dal Primo Emendamento. Un’argomentazione che ha incontrato la contrarietà dei giudici, i quali hanno chiarito che il principio costituzionale addotto non tutela il “discorso osceno” .
Secondo le motivazioni della sentenza, infatti, nel supportare la propria strategia difensiva riguardo la pornografia, l’imputato avrebbe potuto utilizzare immagini di adulti o “bambini virtuali” invece di scegliere un’opzione chiaramente vietata dal Congresso, vale a dire trasformare le immagini di minori in carne e ossa in “scene sessualmente esplicite”. Una pratica che non è protetta dal Primo Emendamento.
Si tratta, a ben vedere, di un’interpretazione che segue l’impostazione fornita da casi giudiziari del passato in materia di pornografia infantile, in base alla quale, ad esempio, anche il mero parlare di immagini pedopornografiche costituisce esempio di reato anziché di libera espressione.
Cristina Sciannamblo