Nonostante la volontà di alleggerire la tensione tra le parti manifestata con l’intervento del fondatore Ren Zhengfei nei giorni scorsi, i rapporti tra Huawei e gli Stati Uniti sembrano destinati a complicarsi ancor di più. Oggi il Wall Street Journal parla di un’indagine federale già in fase avanzata il cui obiettivo è far luce sul presunto furto di segreti industriali da parte della realtà cinese ai danni di alcuni suoi partner statunitensi.
L’indagine USA su Huawei
L’investigazione avrebbe preso il via in seguito ad alcune denunce esposte nei confronti del gruppo asiatico. Una di queste reca la firma di T-Mobile, con l’azienda che ha accusato Huawei di aver impiegato in modo non autorizzato la tecnologia alla base di Tappy, un robot destinato al test degli smartphone in grado di simulare l’interazione di un essere umano con il display. Sul caso si è pronunciato un giudice di Seattle nel 2017, riconoscendo le ragioni dell’operatore. Il Dipartimento di Giustizia d’oltreoceano dovrebbe arrivare a formalizzare le accuse nei confronti di Huawei entro breve.
La proposta di ban
In discussione anche una proposta avanzata da un gruppo bipartisan della Camera dei Rappresentanti che riserverebbe a Huawei lo stesso trattamento già applicato a un’altra società cinese, ZTE. Nel frattempo nelle aule delle politica americana la diplomazia sembra essere già stata messa da parte: riportiamo di seguito in forma tradotta la dichiarazione in merito alla vicenda attribuita al senatore repubblicano Tom Cotton.
Huawei è a tutti gli effetti un braccio di intelligence e raccolta informazioni del Partito Comunista cinese, il suo fondatore e CEO è stato un ingegnere dell’Esercito Popolare di Liberazione. È un dovere attuare azioni decisive per proteggere gli interessi degli Stati Uniti e far sì che vengano applicate le nostre leggi. Se aziende cinesi che operano nel campo delle telecomunicazioni come Huawei infrangono le nostre sanzioni o le nostre regole sulle esportazioni devono essere colpite con nientemeno che la pena di morte.
La posizione di Huawei
La posizione di Huawei rimane quella ormai ben nota: ogni accusa viene rimbalzata al mittente e le voci circa la collaborazione del gruppo con il governo di Pechino nelle operazioni di spionaggio vengono bollate come insinuazioni non fondate. L’indagine potrebbe giungere a termine in un momento delicato, quando la CFO dell’azienda cinese (Meng Wanzhou, figlia di Ren Zhengfei) è ancora detenuta in Canada e rischia l’estradizione negli USA per frode e violazione delle sanzioni nei confronti dell’Iran.
Spionaggio e furto di proprietà intellettuali
Già nel mese di novembre il Dipartimento di Giustizia statunitense aveva annunciato di essere al lavoro con l’FBI per impedire pratiche di spionaggio e furto di proprietà intellettuali, attraverso una serie di iniziative che includono cause civili finalizzate al blocco delle esportazioni dalla Cina di prodotti basati su design messi a punto negli USA. Ora si parla del possibile stop alle vendite verso Huawei e le altre realtà cinesi che operano nel campo delle telecomunicazioni la cui attività è ritenuta in violazione delle normative vigenti sulle esportazioni.
Una misura già in atto per alcune società asiatiche come Fujian Jinhua, che nel novembre scorso è stata accusata da Washington di aver impiegato in modo non autorizzato un sistema sviluppato dalla statunitense Micron Technology per la realizzazione di memorie da integrare nei dispositivi.
All’alba dell’era 5G
Tutto ciò avviene in un momento delicato per il business di Huawei, ad oggi il più grande (in termini di numeri) fornitore di apparecchiature e infrastrutture per i network mobile: gli operatori di tutto il mondo si stanno attivando al fine di allestire le reti sulle quali viaggeranno dati e informazioni in 5G. Diversi paesi hanno già scelto di mettere al bando le antenne provenienti dalla Cina. Tra questi la Nuova Zelanda e alcune realtà di Francia e Germania, con gli Stati Uniti che hanno chiesto ai loro alleati (Italia compresa) di prendere la stessa decisione. Proprio nei giorni scorsi la Polonia ha chiesto un intervento da parte di Unione Europea e NATO.