Il testo scritto, anche se presente sul World Wide Web, è pur sempre testo scritto: e vale come prova in sede giudiziale, anche se d’annata. Qualche giorno fa un giudice del Kansas ha emesso una sentenza tenendo conto di quanto era stato registrato nel database dell’Internet Archive Wayback Machine .
La vertenza (Martin Transport v. PlatForm Advertising) riguardava una questione di “Trademark Infringement”, ossia di violazione di marchio. Chi ha sporto denuncia (un’azienda di trasporti) riteneva che un sito che si occupa di recruitment online avesse utilizzato il suo brand per la pubblicazione di un annuncio di lavoro, senza però richiedere necessaria autorizzazione. Il giudice, dopo aver ascoltato le due parti ed aver visionato le prove portate in aula, ha deciso di dare ragione all’azienda di trasporti .
La prova più importante della causa è stata una schermata registrata dall’Internet Archive Wayback Machine. Analizzando questo documento, infatti, sarebbe palese che la società di recruitment abbia in effetti utilizzato il marchio di proprietà dell’azienda che ha sporto denuncia. La difesa ha anche provato a rendere nullo questo documento, adducendo come scusa il fatto che la Wayback Machine non registra tutto il contenuto del sito in ogni singolo momento, ma il giudice ha ritenuto questo approccio non rilevante. Per arrivare a questa conclusione, il giudice ha anche interpellato un dipendente della società che possiede e gestisce il sito Internet Archive Wayback Machine. Il documento portato come prova dunque è valido e può essere usato per il verdetto, anzi addirittura è stato di fondamentale importanza per la risoluzione del caso.
È la prima volta che negli Stati Uniti viene utilizzata una prova di questo tipo in una causa legale. Il caso è interessante perché segna un precedente di fondamentale importanza. Un documento digitale pubblicato in Rete è finalmente equiparato in tutto e per tutto alla carta. Ma c’è anche da chiedersi: è lecito utilizzare documenti di questo tipo per risolvere delle controversie? Secondo il giudice statunitense che si è occupato di questo caso, lo è. In Europa potrebbe andare diversamente, ma non è questo il punto.
Una sentenza di questo tipo ci fa sentire più o meno sicuri? Vogliamo davvero che qualcuno registri e conservi tutto ciò che passa per il Web? La risposta non è semplice: questa cosa avviene già, che lo vogliamo o meno. E poi c’è il diritto all’oblio, materia delicatissima che vede tra l’altro contrapposti Google e varie entità tra cui la Corte di giustizia dell’Unione Europea. Nei paesi del Vecchio Continente i motori di ricerca – Google in primis – sono costretti a rimuovere dai risultati delle ricerche determinati contenuti che potrebbero andare a ledere l’immagine di persone, società, associazioni o enti. Più precisamente è possibile chiedere la rimozione di risultati ritenuti “inadeguati e irrilevanti o non più rilevanti o eccessivi in relazione agli scopi per cui sono stati pubblicati”.
La Wayback Machine invece è stata concepita con un intento che va esattamente nella direzione opposta: il suo database è lì – online, attivo 24 ore su 24, 7 giorni su 7 – per fare testimonianza di ciò che è passato per il Web, di ciò è stato scritto e pubblicato su Internet. Un ricordo perenne di ciò che fu. Ricordiamo a chi non lo conoscesse che la Internet Archive Wayback Machine è un sistema automatico che copia, importa e conserva pressoché l’intero Web o meglio le pagine di tutti i siti presenti online.
Per la precisione: non ogni pagina in ogni momento. Il sistema prevede una raccolta a campione della stessa pagina web in diverse giornate, a distanza di settimane o mesi. Un esempio per essere chiari: sulla Wayback Machine non troverete tutte le pagine del vostro sito personale da quando è andato online sino ad oggi, ma solo copie di alcune pagine per alcuni giorni – la scelta è pressoché casuale. Probabilmente è basata sulla quantità di tempo che impiegano gli spider per passare due volte di seguito dalla stessa pagina e per registrarne il contenuto. Al momento l’archivio comprende comunque circa 500 miliardi di pagine web.
Ma dobbiamo davvero fidarci dell’Internet Archive Wayback Machine? Proviamo a metterci nei panni dell’avvocato del diavolo: questa non è un’impresa a scopo di lucro, ma è pur sempre un impresa privata. Non si tratta di un ente istituzionale. Non è un archivio di stato. Che garanzia abbiamo che i dati raccolti e conservati non vengano poi manipolati in qualche modo? Chi se ne fa garante? Il giudice di cui sopra non si è fatto problemi di questo genere, anzi ha decretato che le prove analizzate sono valide proprio in quanto il sito che le gestisce non fa nulla per alterare i documenti che raccoglie.
Al di là comunque di tutti questi dubbi e domande, se riteniamo la Wayback Machine una fonte indipendente e affidabile, allora bisogna riconoscergli un valore importante dal punto di vista storico. Questo sito potrebbe essere la vera memoria storica del Web, il suo database potrebbe essere utile per ricostruire passo passo ciò che è accaduto in passato sulla rete delle reti. Il suo importante apporto alla comunità online lo si è potuto verificare in diversi casi, anche in situazioni in cui si è cercato di silenziare la sua voce. Basti pensare al divieto di accedere al sito emanato dalla Russia lo scorso giugno . E questo solo a causa della presenza nel database di un documento considerato sovversivo da parte dell’autorità.
Nicola Bruno