Il congresso non ha dubbi: gli attacchi sferrati contro i propri computer hanno origine in Cina. Per questo motivo gli States dovrebbero mettere in campo delle misure per contenere questi affondi. A segnalare allarmato la questione, il congressman Frank R. Wolf: impegnato da tempo nel mantenere relazioni istituzionali con la Cina, attivo sul fronte della tutela dei diritti umani.
Nell’agosto del 2006 quattro dei computer del suo ufficio sono stati compromessi da un attacco proveniente dall’esterno. Si è trattato di un attacco mirato, rivela , rivolto verso le macchine che ospitavano le documentazioni relative a casi di attivisti politici e di personaggi impegnati nella lotta contro gli abusi perpetrati sui cittadini da governi autoritari. Wolf ha coinvolto la Casa Bianca, ha messo in moto l’FBI e i suoi sospetti sono stati confermati : “è stato dimostrato che i responsabili di questo attacco vengono dalla Repubblica Popolare Cinese”.
Wolf ritiene che l’offensiva sia stata sferrata per prendere confidenza con le difese informatiche opposte dalle reti delle istituzioni degli Stati Uniti, e per vedere e copiare delle informazioni . Ma i rischi non investono semplicemente le macchine dell’ufficio di Wolf: “Mi è stato detto – illustra il representative – che, soprattutto in paesi in cui l’accesso alle informazioni è strettamente controllato dai governi, si rischia che conversazioni e informazioni che passano dai telefonini e dai BlackBerry i membri del Congresso possano venire intercettate o rubate”. “Se dovesse verificarsi un cyberattacco o un problema – prosegue con apprensione Wolf – ho letto che molti analisti sono scettici del fatto che il governo degli Stati Uniti possa adeguatamente recuperare e ricostituire Internet”
Wolf cita a piene mani dalla stampa, snocciola le cronache di una serie di minacce che hanno attentato all’infrastruttura tecnologica e informativa di istituzioni e aziende. Nonostante sia tutto sotto gli occhi di tutti, denuncia Wolf, “pochi comprendono che potremmo essere vulnerabili ad attacchi provenienti lanciati dall’estero con il solo ausilio di computer attraverso il cyberspazio”. “I nostri avversari già sanno che siamo vulnerabili”, per questo motivo Wolf indica la strada del riarmo : “il Congresso deve prendere le redini della situazione e proteggere il nostro governo e la nostra nazione dalle minacce rappresentate dalle attività di cyberspionaggio”.
A poco sembrano dunque servire le raccomandazioni impartite ai membri del Congresso, avvertimenti con cui, ha spiegato Zoe Lofgren della commissione sicurezza Interna, si raccomanda la massima attenzione nel visitare siti cinesi, attraverso i quali si potrebbero contrarre pericolose infezioni veicolo dello spionaggio.
Alle testimonianze di Wolf si accodano quelle offerte da altri due membri del Congresso: anch’essi si dichiarano vittime del furore degli organizzatissimi cyberwarrior , anch’essi chiedono maggiori tutele. Non hanno dubbi sull’origine degli attacchi: “Internet può essere usata come un’arma per generare terrore. Può essere usata come un apparato di disinformazione – ha spiegato uno dei due testimoni – nessuno è più esperto in questa materia del governo cinese”.
La Repubblica Popolare è stata chiamata in causa in numerose occasioni quale presunta responsabile di cyberattacchi sferrati contro istituzioni e aziende . Ha puntualmente negato. La smentita alle accuse del Congresso è giunta da Wang Bao Dong, portavoce dell’ambasciata cinese a Washington: i cracker si sarebbero mimetizzati, avrebbero operato lasciando tracce che potessero gettare la colpa su cyberwarrior dell’estremo oriente. Una ulteriore smentita è giunta dal ministero degli Esteri cinese: “C’è qualche prova? La Cina è ancora un paese in via di sviluppo: abbiamo davvero a disposizione tecnologie a tal punto avanzate?” C’è chi ritiene di dover credere che il ministro stia dissimulando.
Gaia Bottà