I file da dare in pasto alle stampanti 3D per produrre le componenti da assemblare poi in una pistola potenzialmente letale non possono essere distribuiti liberamente. Lo ha stabilito il giudice federale Robert Lasnik, ribaltando di fatto la decisione dell’amministrazione Trump risalente al luglio dello scorso anno per porre fine alla causa intentata dalla texana Defense Distributed contro il Dipartimento di Giustizia.
Pistole e stampanti 3D: dietrofront degli Stati Uniti
Per chi non ne fosse a conoscenza, DD è un’organizzazione statunitense che nel 2013 ha pubblicato in Rete i progetti utili alla produzione di un’arma da fuoco composta interamente da parti stampate in 3D. Un progetto bloccato in un primo momento da Washington durante il mandato di Obama e riportato in auge con l’accordo del 2018 citato poc’anzi. Così Lasnik spiega la nuova presa di posizione.
La produzione di armi da fuoco non identificabili costituisce un pericolo per la pace nel mondo e per gli interessi degli Stati Uniti legati alla sicurezza nazionale.
A Defense Distributed spetta in ogni caso il diritto di ricorrere in appello. Con il seguente comunicato Chad Flores, portavoce dell’organizzazione, ha fatto appello al Primo Emendamento e alla libertà di parola.
Il Primo Emendamento protegge la libertà di parola da qualsiasi restrizione, inclusi i tentativi di censura indiretti come in questo caso. Gli stati non sono autorizzati a imporre al governo federale di eseguire le loro richieste anticostituzionali, nemmeno ricorrendo al pretesto di tecnicismi legali.
Ad ogni modo, già in passato DD ha trovato il modo di aggirare il blocco, semplicemente inviando i file ai richiedenti in forma privata, senza renderli accessibili per il download pubblico.