Il suo caso è ormai noto, soprattutto Oltreoceano, come “Rakofsky v. Internet”. Si tratta di un giovane e alquanto spregiudicato avvocato di New York che ha denunciato ben 74 soggetti attivi online con l’accusa di diffamazione.
La storia prende il via con un articolo comparso sul Washington Post , sul quale veniva presentata la vicenda di Joseph Rakofsky, espulso dal tribunale su decisione di un giudice della Corte Superiore di Washington D.C. per la grave incompetenza mostrata in aula nel corso di un processo per omicidio colposo. La gaffe costata l’espulsione dalle aule giudiziarie riguarda l’esordio dell’intervento dell’avvocato che, parlando davanti alla giuria, ha confessato di non essersi mai occupato di una causa legale prima di allora. Uno sbaglio sufficiente, secondo il giudice William Jackson, per “ostracizzare” Rakofsky.
Il caso è finito su diverse testate giornalistiche , tra cui il Washington Post , e su blog che si occupano di questioni giuridiche e che non hanno potuto fare a meno di sottolineare il carattere grottesco della vicenda.
A questo punto, Rakofsky ha pensato bene di assoldare un avvocato e portare in tribunale tutti coloro che hanno raccontato la sua storia e quindi diffamato attraverso la Rete. La 81 pagine della denuncia citano 74 soggetti tra quotidiani, blog e singoli individui e fanno riferimento alle sofferenze psicologiche derivanti dall’umiliazione subita per mezzo di post e articoli denigratori.
Secondo le indiscrezioni in circolazione, il caso avrebbe ricevuto alcune mozioni di rigetto da parte di alcuni avvocati. Al di là della facile ironia scaturita dalla singolarità della storia, ciò che viene da più parti sottolineato è la necessità di dimostrare che una denuncia nei confronti di persone accusate di aver riferito una storia vera non può e non deve avere il potere di far rimuovere il contenuto sotto accusa e autorizzare al risarcimento solo perché la rete ha la memoria lunga.
Cristina Sciannamblo