Tutte le ricerche effettuate per una specifica parole chiave in un determinato arco di tempo: è quanto chiedono le forze dell’ordine di una cittadina del Minnesota a Google per risolvere un caso di truffa, una strategia investigativa che presuppone che il motore di ricerca tenga traccia di tutte le attività dei cittadini della Rete, e che sia disposto a consegnarle anche se questa richiesta non sia supportata da un sospetto da corroborare.
Google è stata chiamata a collaborare dalle forze dell’ordine di Edina, una cittadina del Minnesota, per risolvere un caso di truffa. Una banca locale, nel mese di gennaio, ha autorizzato una transazione da poco meno di 30mila dollari richiesta da quello che si spacciava come un cliente: per certificare la propria identità, il truffatore ha inviato via fax, simulando l’invio dal numero di telefono della vittima, l’immagine di un documento falso con la foto del cliente, foto che gli investigatori sono riusciti ad individuare fra i risultati di Google, ma non di altri motori di ricerca. Le forze dell’ordine hanno così supposto che il truffatore abbia cercato su Google il nome del cliente della banca , così da dargli un volto e così da poterlo impersonare con accuratezza.
Per questo motivo le forze dell’ordine si sono rivolte a Mountain View: ottenendo e analizzando tutte le occorrenze delle ricerche per il nome della vittima della truffa effettuate tra dicembre 2016 e l’inizio di gennaio 2017, sostengono gli inquirenti, si giungerà al colpevole che si è appropriato della foto per comporre il documento falso usato per ingannare la banca. Nonostante non sia dimostrabile che la foto sia stata ottenuta online, questa logica ha convinto il giudice, che ha autorizzato il mandato per ottenere da Google le informazioni.
Le forze di polizia di Edina hanno formalmente chiamato Google a consegnare “tutte le informazioni disponibili” relative agli utenti che abbiano effettuato ricerche usando come parola chiave il nome del cliente della banca truffato, inclusi “nome e cognome, indirizzo, numero di telefono, data di nascita, numero della previdenza sociale, email, informazioni relative alle transazioni, informazioni sull’account, indirizzo IP e indirizzo MAC”.
Ammesso e non concesso che Google detenga tutti questi elementi, è possibile che il motore di ricerca non si presti alla collaborazione: come osservano fra gli altri gli attivisti di Electronic Frontier Foundation, la richiesta delle forze dell’ordine non appare basata su alcun ragionevole sospetto nutrito nei confronti di uno specifico soggetto, come invece prevede la Costituzione statunitense. Autorizzando questo genere di mandati si trasformano gli intermediari della Rete in uno strumento di indagine al servizio della forze dell’ordine, uno strumento che, come ha ricordato Amazon in un caso recente per cui era stata chiamata a testimoniare, non dovrebbe comprimere la libertà dei cittadini della Rete di informarsi senza il timore di essere sottoposti a costante sorveglianza.
Gaia Bottà