Secondo una sentenza della Corte d’Appello degli Stati Uniti violare i termini di servizio di programmi o siti web non costituisce un reato informatico.
Il caso preso in esame vedeva un ex-impiegato convincere i suoi colleghi ad utilizzare le proprie credenziali per accedere a database aziendali riservati e scaricare i nomi dei clienti e i loro contatti: per questo era accusato di furto di segreti industriali, frode via email, conspiration , nonché di violazione della normativa del 1984 sulle frodi informatiche, nello specifico per quanto riguarda “il superamento di accesso autorizzato”.
Secondo la Corte d’appello l’eventuale estensione di questa ipotesi di reato a qualsiasi accesso illegale o contrario a termini di servizio andrebbe oltre lo scopo della legge così come pensata dal legislatore.
Un’ipotesi, questa, rileva la gran parte dei giudici della Corte d’appello, che finirebbe per far passare da criminali un elevato numero di persone : senza arrivare al principio dell’inammissibilità dell’ignoranza della legge, infatti, la questione riguarda diverse licenze d’uso scritte in maniera magari complicata e arzigogolata e spesso neanche lette dagli utenti che le accettano per accedere velocemente ad un determinato servizio. Senza contare i casi in cui i contratti di licenza vengono unilateralmente modificati dalla parte che li propone.
Si tratta , naturalmente, di una giurisprudenza in divenire, che parte da una normativa del 1984 per affrontare fattispecie diverse e parcellizzate nella pratica delle azione ICT che fanno sempre più un uso estensivo degli accordi di licenza e di clausole non standard.
In ogni caso sembra tracciare un solco tra queste ipotesi di reato e la normativa che dovrebbe invece davvero coprire i reati informatici.
Claudio Tamburrino