Non si sono ancora placate le polemiche che hanno accompagnato il varo del c.d. Decreto Bondi in materia di equo compenso per copia privata, varato lo scorso 30 dicembre che, all’orizzonte, si profila un nuovo caso di compensi, più o meno “equi”, che l’industria dei fonografici pare intenzionata ad esigere in forza di un contesto regolamentare vecchio – per non dire antico – disordinato, ambiguo e confuso.
Inutile dire che, anche in questo caso, non stiamo parlando di qualche migliaio di euro ma di milioni di euro destinati ad essere dragati dalle centinaia di migliaia di esercizi commerciali operanti nel nostro Paese ed a finire nelle casse dei fonografici dopo esser transitati in parte per la solita SIAE ed in parte per la più giovane SCF – Consorzio Fonografici.
Ma andiamo con ordine e partiamo dai fatti.
Nei mesi scorsi decine di migliaia di esercizi commerciali hanno ricevuto una lettera prestampata con la quale la SCF, riferisce che propri incaricati, nel corso di una fantomatica “visita tecnica” – della quale, in realtà, molti dei destinatari della lettera non si sono mai avveduti – avrebbero “rilevato la diffusione di musica registrata o comunque la presenza di apparecchi idonei a detta diffusione (radio, TV, lettori CD, computer, palinsesti dedicati)”.
Muovendo da tale presupposto il Consorzio dei fonografici allega alla lettera una fattura ed un bollettino di pagamento, invitando il titolare dell’esercizio commerciale a provvedere al pagamento del compenso che la legge sul diritto d’autore porrebbe “a carico di chi diffonde in pubblico musica registrata… in favore delle case discografiche e degli artisti interpreti ed esecutori”. Nella lettera, infine, si chiarisce che “il compenso in questione non sostituisce, ma si aggiunge, a quello dovuto alla SIAE, a beneficio degli autori delle composizioni musicali” e si minaccia “in caso di mancato pagamento del compenso nei termini indicati nel bollettino”, l’attivazione di “procedure di recupero coattivo del credito con ulteriore aggravio dei costi”.
A leggere la lettera, complice anche l’importo generalmente contenuto di ogni fattura, sembra tutto straordinariamente semplice e lineare con la conseguenza che appare molto più facile pagare e togliersi il pensiero piuttosto che andare a fondo e cercare di capire se ed in che misura le pretese del nuovo “esattore dei diritti” siano giustificate e fondate.
La questione, tuttavia, è assai più complessa di quanto la lettera, per ovvie ragioni, non dia a vedere. E gli stessi rapporti tra SCF e SIAE e tra gli importi esatti dai due soggetti sono assai meno lineari di quanto non si voglia lasciar intendere. Vale quindi forse la pena di provare a ricostruire la vicenda addentrandosi, non senza una buona dose di pazienza, nella giungla delle norme nelle quali le pretese della SCF affondano le loro radici.
Il punto di partenza è rappresentato dagli articoli 73 e 73 bis della Legge sul diritto d’autore.
La prima delle due norme stabilisce che ” Il produttore di fonogrammi, nonché gli artisti interpreti e gli artisti esecutori che abbiano compiuto l’interpretazione o l’esecuzione fissata o riprodotta nei fonogrammi, indipendentemente dai diritti di distribuzione, noleggio e prestito loro spettanti, hanno diritto ad un compenso per l’utilizzazione a scopo di lucro dei fonogrammi a mezzo della cinematografia, della diffusione radiofonica e televisiva, ivi compresa la comunicazione al pubblico via satellite, nelle pubbliche feste danzanti, nei pubblici esercizi ed in occasione di qualsiasi altra pubblica utilizzazione dei fonogrammi stessi “.
La seconda, prevede, invece, che un ulteriore compenso – questa volta “equo” – sia dovuto ai medesimi soggetti allorquando l’utilizzo non sia avvenuto a scopo di lucro.
La legge demanda la determinazione della misura dei compensi al Regolamento di attuazione della stessa Legge sul diritto d’autore, Regolamento dettato con il Regio Decreto, 18 maggio 1942, n. 1369 il quale, a sua volta, affida la determinazione della misura del compenso – in realtà con esclusivo riferimento a quello di cui all’art. 73 LDA – ad un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri o a speciali accordi “tra le parti”.
La misura del compenso per l’utilizzazione dei fonogrammi per scopo di lucro a norma di quanto disposto dall’art. 73 LDA è stata determinata con il DPCM, 1 settembre 1975 a norma del quale ” in difetto di diverso accordo tra le parti ” la misura del compenso di cui all’art. 73 LDA ” è commisurata al 2% degli incassi lordi o delle quote degli incassi lordi corrispondenti alla parte che il disco o apparecchio occupa nella pubblica utilizzazione “.
La misura dell’equo compenso per l’utilizzazione dei fonogrammi a scopo non lucrativo presso gli esercizi commerciali non è stata, invece, mai determinata. Chiarito così il contesto normativo di riferimento, veniamo ora a quanto sta accadendo negli ultimi mesi nei quali la SCF, dopo un lungo periodo se non di inattività almeno di torpore, sembra essersi risvegliata e appare determinata a recuperare il tempo – e soprattutto gli incassi – perduti e proviamo a far luce sulle molte ombre che questa vicenda proietta sulle dinamiche di gestione ed utilizzo dei diritti d’autore nel nostro Paese.
Cominciamo da un primo dubbio che non può, a mio avviso, ancora considerarsi risolto. L’utilizzo di un sottofondo musicale in un negozio di abbigliamento, in un barbiere o in un alimentari o, piuttosto, un televisore acceso in un bar o in una pizzeria possono considerarsi forme di utilizzo “a scopo di lucro” a norma dell’art. 73 LDA alla stessa stregua dell’utilizzo di musica e video in una discoteca, in un piano bar o in un locale da ballo? Al riguardo occorre, tuttavia, riconoscere che sin qui tanto la giurisprudenza che il Comitato permanente per il diritto d’autore che si è occupato della vicenda in un recente parere dell’11 dicembre 2008, hanno ritenuto, con poche esitazioni, di poter ricondurre anche la fattispecie dell’utilizzo della musica come sottofondo in un esercizio commerciale all’ipotesi di cui all’art. 73 LDA e, dunque, allo scopo di lucro.
Si tratta, però, di una conclusione che non convince perché, a tacer d’altro, non consente di comprendere quali sarebbero, invece, le forme di utilizzo a scopo non lucrativo di cui all’art. 73 bis LDA.
A prescindere, tuttavia, da tale questione, il punto è un altro e riguarda le modalità di negoziazione e determinazione della misura del compenso e di riscossione degli stessi. Al riguardo sembra opportuno ricordare che lo scorso 12 ottobre, Antonio Catricalà, Presidente dell’Autorità Garante della concorrenza e del Mercato, ha preso carta e penna e scritto ai Presidenti di Senato, Camera e Consiglio dei Ministri nonché all’On. Bondi, Ministro per i beni e le attività culturali, manifestando la propria preoccupazione per la situazione venutasi a creare in relazione all’elevata “conflittualità tra le categorie dei beneficiari dei diritti connessi e degli utilizzatori” con specifico riferimento ai compensi di cui agli artt. 73 e 73 bis LDA. Secondo il presidente dell’Autorità Garante, in particolare, il quadro normativo della materia “non si è mostrato idoneo ad assicurare un’efficace tutela dei contraenti più deboli” e si renderebbe, pertanto, necessario “un ripensamento del descritto quadro normativo al fine di individuare modalità di funzionamento del sistema che, da un lato, riducano il livello di conflittualità dei rapporti negoziali e tutelino più efficacemente i contraenti deboli , dall’altro risultino meno idonee ad incidere sull’esito della libera negoziazione delle parti”.
Difficile non convenire con una tanto lucida analisi.
Allo stato, infatti, le centinaia di migliaia di esercizi commerciali italiani sono, loro malgrado, destinatari di richieste convergenti di SCF e SIAE, entrambe preoccupate di garantire ai propri mandanti il miglior risultato economico possibile e non disposte – almeno sin qui – a trovare un accordo che eviti ai titolari degli esercizi commerciali di “cader vittima” di un doppio pagamento, al medesimo titolo.
È la stessa SCF – con un comportamento che, in realtà, lascia perplessi e non brilla né per coerenza né per buona fede – che mentre nelle lettere di accompagnamento alle fatture di cui si è detto sottolinea come “il compenso in questione (n.d.r. quello da essa preteso) non sostituisce ma si aggiunge a quello dovuto a SIAE…”, lasciando così intendere che quanto da lei richiesto sia sempre dovuto anche da quanti hanno già versato altro compenso a SIAE, nella convenzione firmata il 30 dicembre scorso con la FIPE – Federazione italiana pubblici esercizi – dà atto espressamente del rischio di “doppi pagamenti” tanto da impegnarsi “ad attivare senza indugi negoziati con AFI ovvero la sua mandataria SIAE al fine di concordare un sistema di riscossione dei compensi di cui all’art. 73 LDA che non leda gli interessi degli esercenti aderenti”.
È innegabile, infatti – per quanto entrambe le parti spesso si siano sforzate di sostenere che i compensi da loro esatti si riferiscano ad ambiti e diritti diversi – che la SIAE, allo stato, per effetto, tra l’altro, della convenzione siglata con l’AFI il 23 ottobre scorso, operi anche sul medesimo mercato della SCF, riscuotendo i medesimi compensi ex art. 73 LDA presso il medesimo pubblico degli esercizi commerciali e contribuendo così a creare un clima di intollerabile confusione sul versante della certezza del diritto.
Ce ne sarebbe già abbastanza per invocare una moratoria sulla riscossione dei compensi – equi e meno equi – per la diffusione di fonogrammi negli esercizi commerciali ma non basta. Sussistono, infatti, forti perplessità sulle modalità di determinazione e riscossione dei compensi cui la SCF sta facendo ricorso.
Cominciamo dal principio. Il diritto al compenso di cui all’art. 73 LDA – anche a voler riconoscere che far suonare una radio nella bottega di un barbiere possa costituire esercizio a fine di lucro di un diritto d’autore – nasce per effetto dell’utilizzo di uno specifico fonogramma su cui insistono i diritti di un particolare produttore e non è – come sembra ritenere o voler indurre a ritenere SCF – una tassa sul possesso di “radio, TV, lettori CD” o persino “computer”. La prima conseguenza che occorre trarre da quanto precede è che in assenza di un puntuale accertamento in contraddittorio circa l’effettivo utilizzo di un altrui diritto d’autore, l’obbligo di pagamento del compenso non può presumersi o, semplicemente, desumersi dalla presenza nell’esercizio commerciale di un dispositivo idoneo a riprodurre fonogrammi. Ove tale accertamento manchi ed il diritto azionato potrebbe pertanto risultare insussistente, il contenuto delle lettere prestampate che SCF sta inviando ai titolari di decine di migliaia di esercizi commerciali solleva dubbi e perplessità sotto il profilo della sua legittimità. Non si può paventare a terzi come dovuto un importo – per di più in forza di un generico riferimento normativo – e richiederne il pagamento – allegando, persino, una fattura ed il relativo bollettino di pagamento – se tale circostanza non corrisponde al vero. Lascio ad altri qualificare tale condotta ma faccio fatica a ricondurla al novero delle pratiche commerciali corrette.
Nessun dubbio, peraltro, sussiste circa la circostanza che SCF non possa – in assenza di prove sull’effettiva debenza delle somme richieste – archiviare tra i dati dei propri “debitori morosi” quelli dei titolari di esercizi commerciali cui ha indirizzato una lettera senza aver preventivamente provveduto ad un accertamento in contraddittorio circa l’effettivo utilizzo da parte del destinatario di uno dei fonogrammi sui quali insistono i diritti dei propri mandanti.
Tale trattamento dei dati personali del titolare dell’esercizio commerciale, infatti, sarebbe palesemente illegittimo e gravemente lesivo dei diritti di quest’ultimo.
Al riguardo sarebbe inutile – come pure SCF fa attraverso il proprio sito internet – richiamare precedenti giurisprudenziali nell’ambito dei quali, i Giudici avrebbero riconosciuto il proprio diritto. È, infatti, proprio la lettura a contrario di tali precedenti a rendere evidente che la giurisprudenza esige ai fini dell’accertamento della sussistenza del diritto al compenso la prova dell’utilizzo di un fonogramma sul quale insistano diritti di uno dei mandanti della SCF.
Né la legge sul diritto d’autore né l’arcaica sovrastruttura regolamentare da essa germogliata in materia di compensi ex art. 73 LDA, infatti, prevedono alcuna eccezione al regime dell’accertamento della sussistenza dei diritti spettanti ai titolari. Nessun pagamento, pertanto, è dovuto da parte dei titolari di esercizi commerciali che, pur disponendo di apparecchi idonei alla riproduzione di fonogrammi, non li utilizzino effettivamente per la riproduzione di opere sulle quali insistono diritti di una delle società mandanti di SCF: televisori attraverso i quali ci si limita a consentire la fruizione di eventi sportivi previo pagamento dei relativi diritti, dispositivi utilizzati per la sola riproduzione di basi musicali autoprodotte o prodotte da soggetti diversi rispetto ai mandanti della SCF o, magari, radio che suonano esclusivamente musica di pubblico dominio o diffusa con licenze alternative (CC).
Un altro profilo di dubbia legittimità di quanto sta accadendo concerne la misura del compenso pretesa dalla SCF. Il DPCM 1° settembre 1975, infatti, prevede che ” In difetto di diverso accordo fra le parti, la misura del compenso per l’utilizzazione diretta, a scopo di lucro, del disco o apparecchio analogo, dovuto al produttore ai sensi dell’art. 73 della legge 22 aprile 1941, n. 633, sulla protezione del diritto di autore e di altri diritti connessi al suo esercizio e dell’art. 23 del relativo regolamento di esecuzione, è commisurata al 2% degli incassi lordi o delle quote degli incassi lordi corrispondenti alla parte che il disco o apparecchio occupa nella sua pubblica utilizzazione da parte delle categorie di utilizzatori di cui al primo comma del citato art. 73 della legge “.
Non è facile – nonostante il contrario avviso del comitato permanente sul diritto d’autore – trasporre il metodo fissato nel lontano 1975 alle dinamiche di utilizzo dei fonogrammi proprie del 2010 ma è fuor di dubbio che competa a SCF procedere, caso per caso – in difetto di accordo – a determinare la misura del compenso preteso alla stregua della “formula” individuata nel citato DPCM.
L’applicazione di qualsivoglia diverso criterio, infatti, è priva di adeguata copertura normativa e rende, pertanto, infondata la pretesa.
Allo stesso modo solleva dubbi e perplessità – tanto sotto il profilo della disciplina autorale che sotto quello della disciplina antitrust – la circostanza che SCF possa pretendere importi diversi a parità di situazioni, a seconda che il titolare di un esercizio commerciale sia o meno iscritto ad una determinata associazione o federazione. Come, infatti, reiteratamente stabilito dalla giurisprudenza, il compenso di cui all’art. 73 LDA non ha natura contrattuale ma indennizzatoria con la conseguenza che la sua misura deve necessariamente essere commisurata al sacrificio subito dal titolare dei diritti a fronte di una determinata forma di utilizzo e non appare né ragionevole né legittimo ipotizzare che tale indennizzo vari a seconda che il “pregiudizio” sia arrecato da un soggetto iscritto o non iscritto ad una determinata associazione. Lascia, pertanto, perplessi anche la politica di “sconti” e “sanatorie” avviata da SCF a seguito, ad esempio, della stipula della convenzione del 30 dicembre scorso con la FIPE. Tutti i titolari di esercizi commerciali con caratteristiche omogenee dovrebbero, infatti, scontare tariffe altrettanto omogenee in relazione all’utilizzo dei diritti di cui all’art. 73 LDA essendo, in caso contrario, elevato il rischio di preoccupanti distorsioni nel mercato.
Un ultimo cenno merita la questione degli interessi richiesti da SCF. Come infatti da ultimo stabilito dal Tribunale di Milano con la Sentenza n. 2289 del 23 febbraio 2010, la circostanza che il compenso ex art. 73 LDA abbia natura indennizzatoria e non contrattuale esclude che così come, per contro, pretenderebbe SCF, sugli importi da essa richiesti possano essere altresì pretesi gli interessi calcolati alla stregua della speciale disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
Occhio alle fatture, quindi.
I dubbi e le perplessità non finiscono qui e, proprio per questo, allo stato appare auspicabile che il Ministro Bondi ed il Governo raccolgano il suggerimento del Presidente dell’Autorità Garante per la concorrenza ed il mercato ed avviino senza ritardo un processo di radicale revisione della disciplina vigente che, tra l’altro, segni anche un ripensamento della nozione di utilizzo “a scopo di lucro” di un fonogramma. Fino ad allora credo che una moratoria sull’esazione dei compensi ex artt. 73 e 73 bis LDA sarebbe un gesto dovuto ed apprezzabile da parte dell’industria fonografica che, in ogni caso, alla fine del 2010 sarà più ricca – o se si preferisce meno povera – dell’anno precedente grazie al Decreto sull’equo compenso per copia privata.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it