Web (internet) – Sono definitivamente tramontati i tempi in cui un solo semplice messaggio off topic su una lista di discussione o un newsgroup era in grado di scatenare le ire dei più. Erano i tempi in cui il diluvio di comunicazioni pubblicitarie via posta elettronica compiva i suoi primi passi e la grande maggioranza di messaggi non desiderati che giungevano alle nostre mailbox riguardavano improbabili catene di Santi, totem della felicità o finte richieste di aiuto per bimbi affetti da rare malattie. Molti ci cascavano e diffondevano l’inutile cometa di bit per la rete, tanto che certi ormai preistorici messaggi come quello sul Good Time Virus si trovano in giro ancora oggi. Poi lentamente si diffuse l’abitudine di utilizzare le nostre mailbox come caselle pubblicitarie per i prodotti più disparati.
I pubblicitari del web già da qualche anno provano a tranquillizzarci al riguardo dicendo che non c’è nulla di più lontano dalle moderne tecniche di marketing online dello spam (che però misteriosamente nella sua variante cartacea continua ad abitare le nostre buche delle lettere sottocasa), che il rapporto fra chi vende e chi acquista è ogni giorno di più un rapporto fiduciario e non certo un diluvio di comunicazioni a senso unico e cose simili. Eppure l’ultima frontiera pubblicitaria per noi disponibile, quella di Gratistel che offre telefonate senza costi a chi è disposto a subire spot via telefono sembra dimenticare questi principi quando obbliga all’interruzione pubblicitaria anche l’ignaro e incolpevole ricevente la telefonata. In questo caso, evidentemente, il rapporto fiduciario diventa secondario e non è un caso che in Germania questa imposizione delle telefonate con spot sia stata considerata illegale.
Così in attesa che i banner su Internet si trasformino in minifilm in formato realvideo (la sperimentazione al riguardo tentata dalla Peugeot in questi giorni ha dato, dicono, ottimi riscontri di interesse da parte degli internauti) tanto vale dare una occhiata alla bella ricerca effettuata dal CAUCE (Committee Against Unsolicited Commercial Email) e dal FREE (Forum for Responsible and Ethical Email), due importanti organismi no profit che si sono in questi anni distinti per la lotta allo Spam, sulla tipologia dei messaggi di posta elettronica non desiderati che quotidianamente, nonostante tutto, riceviamo.
Per inciso, se un tempo si sarebbe detto solo che lo spam “invade la privacy degli utilizzatori dell’email”, per una forma di rispetto al nuovo padrone di casa, oggi si aggiunge anche che “danneggia la crescita del commercio elettronico”.
Dei 150.000 spam raccolti nella primavera del 1999 il 30% sono di carattere pornografico. Un altro 30% propongono soluzioni per diventare ricchi senza fatica, solo il 23% ha come oggetto tentativi di direct marketing convenzionale.
Il 10% circa dei messaggi studiati ha poi come oggetto inviti riguardanti la salute fisica (vendita di vitamine, cure dimagranti o contro la caduta dei capelli etc). Uno su quattro di questi messaggi reclamizza la vendita via Internet di capsule di Viagra il cui commercio al di fuori del filtro obbligato di farmacisti, andrologi e medici di base, sembra essere da molti preferito. A costo di qualche rischio in più.
Per molte ragioni l’Europa è stata in questi anni solo marginalmente toccata dal problema dello Spam. Gran parte dei messaggi analizzati nella ricerca ha come origine o transito alcuni grandi siti americani: AOL compare negli headers di 2/3 dei messaggi analizzati.
Questo non significa che il fenomeno possa essere da noi minimizzato ancor di più se si considera che l’attenzione da parte dei nostri Provider verso il filtraggio dei messaggi non richiesti è pratica spesso poco e male utilizzata.
Ciò nonostante la Spam sembra ormai l’emblema di qualcosa di superato: uno strumento grossolano di minima efficacia in mano a soggetti dalle risorse tecniche o economiche limitate. Per tutti gli altri le strade digitali per pubblicizzare beni e servizi passano ogni giorno di più attraverso la raccolta dei nostri dati. E ciò avviene, nella gran parte dei casi, al di fuori del nostro consenso, spesso senza che si abbia la possibilità persino di accorgercene. E per un caso balzato agli onori della cronaca in questi giorni come quello di Real Networks, sorpresa a spiare i file audio dei nostri HD attraverso il suo RealJukeBox, mille altri restano sotto il pelo dell’acqua.
Il rischio è del resto minimo e l’esempio della più grande software house di streaming audio-video di Internet ce lo mostra con chiarezza: si chiede scusa, si rilascia una nuova versione del software incriminato, si recita qualche pietosa bugia nei comunicati stampa. E poi via, di nuovo a razzo dentro uno dei pochi business realmente remunerativi che Internet ha generato da quando è diventata .com: la vendita a terzi della nostra “anima”.