È il risultato finale di un’analisi durata un anno e mezzo, un corposo documento preparato da Warner Bros. per cercare di capire meglio le attitudini e i comportamenti di milioni di condivisori. Un lungo lavoro votato al certosino tracciamento dei vari client P2P oltre che dei principali siti dedicati allo streaming illecito dei contenuti. Ben Karakunnel, direttore della divisione antipirateria della major statunitense, ha così presentato i dati alla platea dell’ultimo Content Protection Summit di Los Angeles.
Le osservazioni di Karakunnel sono state in realtà poche, tutte comunque cruciali per capire meglio l’eterna lotta tra grandi case cinematografiche e file sharer di tutto il globo web. Le analisi di Warner Bros. hanno in primis ammesso l’esistenza di un trend più volte evidenziato in ambito accademico: chi scarica in maniera illecita è anche un consumatore di contenuti legali , assiduo frequentatore delle sale, legittimo acquirente di DVD.
Un assunto che spiegherebbe quelle che alcuni hanno visto come delle nuove strategie pubblicitarie da parte di Warner Bros. L’ultimo leak tra i marosi del torrentismo dei primi minuti di Harry Potter e i Doni della Morte sarebbe infatti stato provocato dalla stessa major di Hollywood, nel tentativo di attirare ancora più spettatori in sala. Come per incoraggiare i pirati – visti dunque come potenziali acquirenti al boxoffice – ad andare al cinema.
Karakunnel è poi passato ad altre evidenze. Il 65 per cento del carico globale dei download di contenuti di proprietà di Warner Bros. sarebbe rappresentato da film, seguiti con il 35 per cento circa da spettacoli televisivi. Ad usufruire dei vari client P2P sarebbero generalmente maschi dell’età compresa tra 18 e 24 anni, mentre le donne sembrerebbero preferire di gran lunga le principali piattaforme legate allo streaming .
Se Warner Bros. cerca di capire il file sharing per combatterlo meglio, i rappresentanti dell’industria del cinema e del disco si sono rivolti al Department of Commerce statunitense, sottolineando come l’arma legale costituisca una soluzione limitata al problema del P2P. Il caso citato da associazioni come MPAA e RIAA è quello di LimeWire , costretto alla chiusura delle attività dopo un estenuante contenzioso di quattro anni.
Decisamente troppi, almeno secondo gli alfieri del copyright a stelle e strisce. Anni litigiosi che portano via risorse in termini di tempo e di denaro. Secondo i dati contenenti in uno studio della Princeton University , il 99 per cento di un campione di circa mille file BitTorrent violerebbe il copyright. Un problema che non riuscirebbe ad essere risolto con singole azioni legali. L’industria ha quindi chiesto al Department of Commerce di far calare il pugno duro, data una serie di pericolose scappatoie offerte dal Digital Millennium Copyright Act (DMCA).
Mauro Vecchio