Vietato rispondere alla critiche, almeno via Twitter. È questo il nuovo dettame della direzione del Washington Post in materia di utilizzo di social network da parte dei proprio giornalisti.
L’ articolo al centro della vicenda , “La compassione cristiana necessita della verità sui danni dell’omosessualità” di Tony Perkins ( definibile un “attivista anti-gay”), toccava il delicato tema del suicidio di alcuni ragazzi e, arrivando a collegare omosessualità e malattia, ha naturalmente generato polemiche.
In particolare, il gruppo attivista gay GLAAD ha scelto Twitter come mezzo per lamentarsi dell’articolo. A questo punto a rispondere non è stato un giornalista o il commentatore Perkins, ma l’account ufficiale del Washington Post che ha tentato di difendere l’articolo affermando che rappresentava la volontà del giornale di coprire “entrambi i punti di vista”. Innescando la logica risposta di GLAAD, secondo cui non si trattava di una storia con più punti di vista.
Il battibecco è stato interrotto in via ufficiale da Raju Narisetti, caporedattore del Washington Post : “Per quanto riconosciamo l’importanza dei social media, invitiamo a non utilizzare gli account ufficiali per altri scopi se non quello di divulgare notizie, raccogliere materiale generato dagli utenti e aumentare il coinvolgimento dei lettori. Ciò non significa, però, rispondere alle critiche e parlare a nome del Post”.
Eventuali commenti, si legge nell’intervento ufficiale, “corrispondono ad una lettera al direttore, e allo stesso modo le risposte ottengono una valenza maggiore e devono essere trattati conseguentemente”.
Questo, certo, fa chiedersi cosa intenda il Post per “coinvolgimento dei lettori” se le risposte non sono concesse, ma è in linea con quanto la direzione del quotidiano (nonché quella di AP ) ha già chiesto rispetto ai comportamenti social dei suoi giornalisti: stringenti linee guida per non intaccare la reputazione del giornale e dei suoi uomini . Che anche come privati cittadini online non devono, per esempio, “far trasparire preferenze su temi religiosi, razziali e sessuali; favoritismi che potrebbero macchiare la credibilità professionale”. Per quello, d’altronde, ci sono già gli articoli di Tony Perkins.
Claudio Tamburrino