Le immagini di Washington hanno fatto il giro del mondo e all’alba del nuovo giorno da tutto il mondo si stanno prendendo le distanze (più o meno esplicitamente, più o meno strumentalmente) da Donald Trump dopo quanto successo nella serata di ieri. Ma a distanza di poche ore c’è una discrasia che stride più di ogni altra: a levare gli scudi contro la protesta sono stati utili più i social network che non la politica, le forze dell’ordine, i discorsi ufficiali in tv o cos’altro. Come se il baricentro del potere si fosse definitivamente spostato, traslando la base del dibattito e il cuore di quell’opinione pubblica su cui la politica costruisce il proprio consenso e le proprie fortune.
Washington, Twitter, Facebook
Quando la sommossa è scattata, le forze dell’ordine sembrano aver mosso soltanto flebile resistenza all’ingresso dei rivoltosi. Armati di bandiere ed improbabili elmetti, hanno potuto sfondare le porte della democrazia USA e mettere sotto assedio il Congresso con drammatica facilità. C’è chi sospetta una certa timidezza delle forze dell’ordine, chi vede in questo atteggiamento lascivo un tentativo di non drammatizzare il momento, ma in ogni caso parte da questo elemento la scintilla di tutto.
A questo punto ecco levarsi gli scudi del mondo social, ove le mosse sono state varie. Twitter ha lasciato che Trump pubblicasse un improbabile invito a desistere prima di bloccare l’account per 12 ore (una sorta di squalifica a tempo per bypassare l’emergenza pur non pregiudicando la facoltà del Presidente di tornare ad esprimersi: “Lo scopo di Twitter è facilitare la conversazione pubblica. Violenza, molestie e altri comportamenti di questo genere scoraggiano le persone dall’esprimersi e portano all’impoverimento della conversazione pubblica globale. Abbiamo stabilito le nostre regole per permettere a tutti di partecipare alla conversazione pubblica liberamente e in sicurezza“); Facebook ha fermato Trump, ma soltanto dopo ore di dibattito sui forum interni a Menlo Park e con apparente fastidio degli admin del forum di discussione; fortissimo il messaggio lanciato dal vice-presidente Mike Pence, che in pochi minuti ha smesso di seguire Trump su Twitter ed ha pubblicato una copertina che ritrae l’immagine del nuovo Presidente Biden.
Mentre Trump continuava a legittimare la protesta con le proprie parole, insomma, i social network gli hanno tolto il microfono. Un tira e molla durato per mesi (anni?) è infine arrivato ad una decisione drastica che solo eventi drastici avrebbero legittimato senza il sospetto di attentare alla libertà di espressione. Ma nelle ore in cui si invoca addirittura il 25esimo emendamento, e la destituzione coatta del Presidente, anche i social possono agire al di fuori di equilibri precostituiti e resi vetusti dai fatti.
La rinegoziazione della libertà passa per i social mai come in questo caso, dove è un leader QAnon a sfondare le porte della politica dopo aver sfondato le porte dei social network con le proprie teorie complottiste. La debolezza della politica e quella dei social hanno visto il proprio climax proprio nella serata di ieri, quando però i social hanno potuto reagire in extremis mentre la politica era ormai costretta a subire l’onta dell’affronto. La fragilità delle democrazie di oggi sta tutta in questa fotografia.
Quanto male i complottismi possano fare per la libertà, è ora più chiaro e tangibile di quanto non lo fosse prima d’ora. Questione di “pozzi avvelenati”, sostengono in molti. Ed in questo il mondo social non può che avere un ruolo fondamentale, affrontato fin troppo spesso con il medesimo atteggiamento lascivo con cui Trump evitava condanne esplicite nei confronti di quanti, ieri sera, hanno corroborato le sue idee sulle elezioni truccate sfondando le porte di Washington e bucando gli schermi di tutto il mondo.