La normativa conosciuta con il nome di Web Tax sembra essere tutt’altro che morta e sepolta: se ormai assodato che che le modalità scelte per tassare le grandi aziende ICT fossero sbagliate, secondo i sostenitori della norma occorre trovarne di nuove.
Il discusso emendamento alla Legge di Stabilità fortemente voluto dal presidente della commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia intendeva obbligare al possesso di partita IVA italiana tutti gli operatori che vendono pubblicità online: l’obiettivo era quello di affrontare il problema della corretta tassazione degli incassi effettuati attraverso l’advertising online da parte delle grandi multinazionali ITC, in grado di scaricare sulle affiliate estere i guadagni con misure fiscali ritenute nella zona grigia della legalità.
La norma era tuttavia stata al centro di diverse critiche, che riguardavano la logica, l’opportunità e il rispetto della normativa europea in materia: in un mondo globalizzato l’obbligo di utilizzo della partita IVA italiana era apparso anacronistico, di difficile applicazione e potenzialmente contrario ai principi del mercato unico europeo. Per questo il neo-costituito Governo Renzi aveva fatto marcia indietro rispetto al suo predecessore Letta, annunciando la cancellazione della parte della normativa che prevedeva l’obbligo di partita IVA italiana anche per le aziende straniere.
Tuttavia, c’è chi preme affinché si intervenga per affrontare il problema della tassazione delle aziende multinazionali. L’ ultima occasione per discuterne è stato il convegno “Economia digitale e industria culturale”, promosso dall’onorevole Francesco Boccia a Montecitorio, a cui hanno partecipato anche Carlo De Benedetti, Presidente del Gruppo L’Espresso, e Fedele Confalonieri di Mediaset.
De Benedetti ha ribadito la necessità di disinnescare i meccanismi sfruttati dalle grandi multinazionali per evitare il fisco italiano: se è sbagliato parlare di ritorno alla web tax, allora va bene anche chiamarla “equity tax”.
Il problema, infatti, secondo il Presidente del Gruppo l’Espresso è sempre quello dell’adeguamento del regime fiscale ai cambiamenti storici: “Soprattutto in una situazione come quella odierna dove l’economia digitale cambia tutto – ha spiegato – la prospettiva non è più quella della proprietà ma quella dell’accesso, del servizio. L’economia reale privilegia il rapporto tra bene e territorio, quella digitale invece sceglie il territorio, creando sacche di elusione e di evasione che non possono essere ignorate. Questo passaggio chiede la creazione di strumenti fiscali nuovi”.
Sempre sul file della semantica muove anche la tesi degli altri partecipanti al congresso: si parli di “Freedom tax”, come dice l’onorevole Francesco Boccia, oppure “chiamatela Carolina, o come volete voi”, dice Confalonieri, convinto della necessità di introdurre un provvedimento che ponga ordine alla situazione.
Il presidente di Mediaset ha sottolineato come la sua azienda si sia già scontrata con giganti ICT uscendone vincitrice, come nella battaglia con Google per i video delle sue trasmissioni su YouTube (una vittoria, però, parziale ). È d’altronde proprio questo il punto, quella che viene definita concorrenza sleale, messa in atto dagli attori del Web: “Nel campo del video lavoriamo in una condizione di totale disparità, i broadcaster europei finanziano l’80 per cento della produzione di contenuti e hanno le direttive europee con la loro regolamentazione, l’antitrust, il 20 per cento sul Sic, i limiti di affollamento degli spot, i limiti di quote europee – denuncia Confalonieri – e se poi scappa un capezzolo a una conduttrice apriti cielo. Invece su Internet c’è l’ira di Dio e non succede niente.”
Claudio Tamburrino