Se da un lato, internamente, il governo tira dritto sull’ipotesi di un allargamento della Web Tax a tutte le aziende del settore digitale, di fatto ignorando il grido d’allarme degli addetti ai lavori, dall’altro sembra poter assumere un atteggiamento molto più accomodante nei confronti delle pressioni che giungono da oltreoceano e che chiedono di eliminare l’imposta studiata in origine appositamente per i colossi statunitensi. Lo scenario che si prospetta, e che ci auguriamo di veder scongiurato durante l’iter parlamentare della legge di bilancio, ha del paradossale, per usare un eufemismo. Il rischio è quello di trovarsi a dover fare i conti, e a pagare le conseguenze, del più classico pasticcio all’italiana.
La Manovra 2025 e l’allargamento della Web Tax
Nel 2018, il nostro paese ha deciso di non voler più aspettare l’Europa e le sue indecisioni, muovendosi autonomamente e introducendo una tassazione per le Big Tech che operano e generano profitti nel territorio nazionale e che, fino a quel momento, non avevano contribuito, se non in modo irrisorio, all’economia locale, sfruttando un sostanziale vuoto legislativo e facendo transitare il fatturato da sedi legali collocate altrove, in paradisi fiscali. La misura è passata negli anni successivi attraverso una serie di revisioni, mantenendo però inalterato il principio di applicazione solo ai grandi gruppi tecnologici. Questo, fino a oggi.
Nella bozza della Manovra 2025 c’è l’allargamento della Web Tax anche a PMI e startup, con l’eliminazione dei limiti minimi inerenti alle entrate. Tradotto: ogni azienda del settore, anche quella più piccola e persino le partite IVA individuali, si troverà a dover versare un ulteriore 3% sui ricavi (e non sugli utili), indipendentemente dalla salute e dalla portata del suo business. Di fatto, potrà essere equiparata a Google, ad Amazon e a Meta. Insomma, la ricetta perfetta per affossare quella stessa industria che viene poi tirata per la giacchetta dalle istituzioni quando è il momento di sbandierare il proprio sostegno all’innovazione e al digitale.
Ritorsioni dagli USA in caso di rifiuto
Al quadro dipinto fin qui si aggiungono quelle pressioni provenienti dagli Stati Uniti che abbiamo citato in apertura. Ne ha scritto Reuters, citando quanto riferito da fonti ritenute a conoscenza del dialogo Roma-Washington, per ovvie ragioni rimaste anonime.
In breve, gli USA avrebbero chiesto nuovamente all’Italia, e con rinnovata insistenza, di eliminare la Web Tax applicata ai giganti USA, minacciando inoltre ritorsioni in caso di rifiuto.
La posizione assunta dal governo sarebbe (utilizzare il condizionale è d’obbligo) quella di una cauta attesa, evitando di pronunciarsi in merito almeno finché alla Casa Bianca non si sarà insediato il nuovo presidente Donald Trump.
Ricordiamo che il tycoon, durante la sua campagna elettorale, ha più volte confermato la volontà di attuare una politica protezionista, e in un certo senso isolazionista, per quanto riguarda le importazioni e le esportazioni, influenzando di conseguenza i rapporti con gli altri paesi. Proprio questa potrebbe rivelarsi un’arma nelle mani della nuova amministrazione a trazione repubblicana, per forzare l’Italia a cedere sul fronte Web Tax, eliminando o perlomeno alleggerendo l’imposta studiata proprio per realtà come Google, Amazon e Meta.
Due p(a)esi, due misure
Da un lato, dunque, l’eventuale impatto di una Web Tax locale estesa si deciderà a stretto giro in Parlamento, a colpi di emendamenti. E a pagarne le conseguenze potrebbero essere le aziende nazionali, che nulla hanno a che fare con i mega-fatturati dei colossi americani.
Dall’altro, invece, si potrebbe dover attendere almeno fino a gennaio 2025, quando Trump metterà nuovamente piede nello Studio Ovale, per decidere le mosse successive sulla scacchiera della diplomazia. Allora, l’Italia si troverebbe a dover decidere se cedere o meno alle pressioni esterne, ma per le nostre aziende sarà (pardon, sarebbe) comunque troppo tardi.