È presto per dire cosa ne sarà di Periscope e soprattutto della sua idea (che già era quella di Meerkat e altre app di minor fama), ovvero se seriamente ci sia spazio online per una comunicazione audiovisiva effimera, se il principio che sembra funzionare bene nelle discussioni private tramite Snapchat regga anche su larga scala: l’esigenza di avere delle informazioni in video che non siano conservabili e che in questo abbiano il proprio valore.
Da quando internet a banda larga è una realtà anche della tecnologia portatile, questa ha fomentato la creazione di servizi e applicazioni che ruotano intorno alla proliferazione dell’immagine personale, della documentazione dell’esistente con scarsi utilizzi di finzione. Se “fare un film con l’iPhone” è diventata una locuzione più vera a parole e nelle discussioni che nella realtà (esempi ce ne sono, ma sparuti), è invece vero che attraverso le videocamere e le fotocamere degli smartphone si è cominciato a documentare e creare video usa e getta in grande quantità (non per questo necessariamente di scarso valore), con un progressivo e netto miglioramento delle competenze individuali. Vine e Instagram in maniere diverse hanno iniziato a monetizzare e aggregare utenti intorno alla “creatività” da pochi secondi. Queste due applicazioni, benché asincrone, sono quelle che hanno iniziato a formare la mentalità nei riguardi della produzione effimera. I Vine e i video Instagram possono essere infatti rivisti molte volte ed essere recuperati o linkati, tuttavia la loro fruizione è per lo più istantanea.
Periscope ora vuole portare tutto questo alle estreme conseguenze (i suoi video rimangono fruibili per massimo 24 ore) e si presenta sul mercato senza una chiara idea riguardo ai possibili usi della propria tecnologia. In buona sostanza Twitter non si azzarda a suggerire a cosa possa servire Periscope (e fa bene, sbaglierebbe comunque e comunque sarebbero gli utenti a decidere a cosa gli è più utile), semplicemente immette sul mercato qualcosa del quale intuisce ci possa essere domanda.
Tutto è parte del medesimo movimento da internet come tempio dei contenuti eterni, che non possono essere perduti e che per questo motivo necessitano addirittura di una regolamentazione apposita (il diritto all’oblio), a internet come terra di comunicazioni deperibili e non durevoli, non diverse dalle telefonate. In questo Periscope non è diverso dal videotelefono (che non ha mai attecchito davvero): favorisce una comunicazione destinata a non rimanere, solo che per la prima volta questo tipo di messaggi non sono tra pari ma in broadcasting, emessi da una persona sola e ricevuti da molti.
Cosa ancora più difficile, Periscope sembra voler sdoganare ufficialmente la fastidiosa ripresa verticale del telefono cellulare (non si può riprendere in orizzontale), quel look a cui non siamo abituati e che raramente viene scelto per i video, di certo mai per quelli creati ad arte (e infatti su Periscope è inutile farlo perché nulla si può conservare).
Di sicuro l’aumento di richiesta di contenuti audiovisivi crea anche una domanda maggiore di applicazioni che ne amplino l’uso. Se è vero che gli utenti vogliono vedere più che leggere, è allora anche vero che c’è spazio per usi diversi del video che non rientrino nelle sole categorie di intrattenimento, informazione e finzione.
Periscope è qui che pesca, in tutto ciò che non è informazione (perché questa necessita di un accesso continuo e della permanenza online), che non è finzione (perché richiede uno sforzo che non giustifica la deperibilità) e non è intrattenimento come lo intendiamo (ovvero durevole nel tempo).
Gabriele Niola
Il blog di G.N.
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