La decisione di Facebook di usare i numeri di telefono e i dati di utilizzo degli utenti WhatsApp continua a far discutere. Anzi, a distanza di un mese dall’ufficializzazione di questo cambio di policy, le cose si fanno più complicate per la società guidata da Mark Zuckerberg. In diverse parti del mondo si stanno prendendo misure legali per opporsi a questa pratica, da molti considerata scorretta e/o lesiva della privacy.
Martedì 27 settembre, Johannes Caspar, il commissario per la protezione dei dati della città di Amburgo, ha ordinato a Facebook di bloccare in Germania la pratica della raccolta dei dati di WhatsApp e di cancellare tutti quelli raccolti sinora attraverso l’app di messaggistica, per circa 35 milioni di utenti tedeschi. Caspar ha dichiarato che trasmettere o meno i propri dati alla società che possiede WhatsApp è una decisione che spetta soltanto all’utente. Utente che dovrebbe essere avvisato in anticipo e a cui dovrebbe anche essere posta una domanda esplicita con facoltà di recesso, cosa che secondo il regolatore non è avvenuta. Da qui la richiesta di stop all’attività di raccolta dati . La risposta di Facebook alle accuse di Caspar ovviamente non è tardata ad arrivare. La società afferma di aver agito secondo le norme in vigore in Europa in materia di privacy e di voler comunque collaborare con l’authority tedesca per risolvere questa impasse.
Ma i problemi per Facebook relativi alla raccolta di dati attraverso WhatsApp non si fermano qui. È di oggi la notizia che anche il Garante della Privacy italiano ha deciso di avviare un’istruttoria . Nello specifico l’autorità ha chiesto di conoscere tre aspetti fondamentali: la tipologia di dati che WhatsApp intende mettere a disposizione di Facebook; le modalità per la acquisizione del consenso da parte degli utenti alla comunicazione dei dati; le misure per garantire l’esercizio dei diritti riconosciuti dalla normativa italiana sulla privacy , considerato che dall’avviso inviato sui singoli device la revoca del consenso e il diritto di opposizione sembrano poter essere esercitati in un arco di tempo limitato. Sebbene qui da noi non sia stato ordinato il blocco immediato della raccolta, il garante ha chiesto risposte chiare a parte Menlo Park, anche riguardo lo scopo ultimo dell’operazione, in quanto nella policy del servizio WhatsApp non era presente alcun esplicito riferimento a finalità di marketing.
C’è anche da dire che Italia e Germania non solo sole in questa particolare battaglia. Anche la UE vuole vederci chiaro. Non molte settimane fa Margrethe Vestager, il Commissario Europeo che si occupa di concorrenza, ha dichiarato che la sua commissione sta investigando su questo nuovo problema di privacy emerso con la recente decisione di WhatsApp; una vera e propria inversione a U, se si pensa che nel 2009 Jan Koum, l’amministratore delegato della società che ha sviluppato l’app, dichiarò con estrema chiarezza : “Non abbiamo venduto, non vendiamo e non venderemo mai le vostre informazioni personali a chicchessia. Punto. Fine della storia”. Bisogna anche ricordare che l’Unione Europea diede l’OK all’acquisto di WhatsApp da parte di Facebook perché vennero date rassicurazioni sul fatto che i due servizi sarebbero rimasti distinti, cioè che i dati degli utenti non sarebbero stati condivisi, al fine di evitare la creazione di un agglomerato ancor più grande e quindi a maggior rischio di posizione dominante sul mercato dei servizi online .
Acquisendo i dati da WhatsApp, Facebook persegue dunque finalità di marketing? La domanda può sembrare banale o retorica ma è del tutto lecita, in quanto va dritta al nocciolo della questione. WhatsApp è ormai un servizio del tutto gratuito: l’app non ha un costo, né presenta inserzioni pubblicitarie; un tempo agli utenti si chiedeva di pagare un corrispettivo per abbonarsi annualmente al servizio, ma adesso non è più necessario. Ciò significa che la società non ha più alcuna fonte di introiti. Non genera più incassi dunque: è un’attività in perdita. Ma Facebook, che ha acquistato WhatsApp nel 2014 per 19 miliardi di dollari, è chiaramente intenzionata a modificare questa situazione e a rendere nuovamente proficuo anche questo servizio. Come? Aumentando la precisione con cui viene effettuata la profilazione degli utenti, perché – teniamolo sempre a mente – è questo il vero servizio che Facebook vende ai suoi investitori; è questo il modo in cui Facebook fa soldi.
Comunque se l’Europa ruggisce, il resto del mondo non sta a guardare. Anzi, ci sono nazioni – come l’India – che si sono mosse leggermente in anticipo. Venerdì 23 settembre la Corte Suprema di Nuova Delhi ha intimato a Facebook di bloccare la raccolta dei dati attraverso WhatsApp e di cancellare dai suoi server tutto il materiale raccolto tramite questa pratica. Il Presidente della Corte Suprema Gorla Rohini, in qualità di capo della commissione che si occupa della faccenda, ha ordinato persino che le informazioni degli utenti indiani che hanno accettato le nuove condizioni poste da WhatsApp non debbano essere condivise con Facebook o società terze. Congiuntamente è arrivata dalla stessa autorità la richiesta di inserire nell’app un’opzione che permetta agli utenti che lo desiderano di non condividere le proprie informazioni. La società nel rispondere a questa decisione della corte indiana ha ricordato e chiarito che solo le informazioni sull’utente sono trasmesse a Facebook – non i dati sull’utilizzo che fa dell’app – e che i messaggi non recapitati vengono in ogni modo cancellati dal server della società dopo 30 giorni.
Nicola Bruno