Le Google Car hanno raccolto troppe informazioni sulle reti WiFi durate il passaggio a fotografar strade e numeri civici, Mountain View gioca ancora una volta il ruolo di parafulmine di indagini conoscitive da parte di organizzazioni di controllo di mezzo mondo , negli Stati Uniti, in Germania, nel Regno Unito e anche in Italia.
Google ha già ammesso di aver catturato “per sbaglio” dati aggiuntivi oltre agli indirizzi MAC dei dispositivi di rete e gli identificativi SSID, inclusi i siti web visitati laddove le reti wireless risultassero prive di protezione. Ma l’ammissione dell’errore (pare dovuto a un codice software sperimentale che chissà come è finito a bordo della Google Car) non basta al gruppo pro-consumatori statunitense Consumer Watchdog , che ha in tutta risposta chiesto alla Federal Trade Commission di interessarsi del caso con un’indagine ufficiale.
Per Consumer Watchdog quella di Google è nient’altro che una “flagrante intrusione nella privacy dei consumatori”, scoperta per puro caso dopo richieste di chiarimenti da parte dei regulator europei. E comunque si tratterebbe, a parere dell’organizzazione, di un’azione da parte di un’azienda che in passato ha già ampiamente dimostrato la tendenza a “spingersi un po’ più in là e poi chiedere scusa quando lo sconfinamento viene beccato”.
“Viste le recenti cronache di abuso della privacy – dice il difensore della privacy John Simpson – non c’è assolutamente alcuna ragione di credere a qualunque cosa il gigante di Internet sostenga in merito alle sue policy di raccolta dati”. Sulla stessa linea di Simpson si schiera il commissario tedesco per la protezione dei dati Peter Schaar, nelle cui parole Google emerge come un’azienda che “semplicemente non rispetta le normali regole nello sviluppo e nell’utilizzo del software”.
Le autorità tedesche sono pronte a investigare con dovizia di particolari l’operato di Mountain View, e nel mentre hanno chiesto alla corporation californiana di fornire loro gli hard disk su cui sono stati archiviati i dati raccolti “per sbaglio”. Google per il momento ha rifiutato, dicendosi pronto a cancellare le informazioni ma non a consegnare gli hard disk aziendali a Berlino.
E restando in Europa per Google si profilano guai anche oltre la Manica, con il Commissario all’Informazione del nuovo governo britannico che ha espressamente richiesto a BigG di cancellare i dati personali raccolti per mezzo del servizio Street View. In questo caso Google ha detto di essere pronto a fare quanto chiesto dalle autorità (così come già fatto in Irlanda) e in tutta risposta l’ Information Commissioner’s Office ha assicurato di non voler avviare istruttorie sul suo operato.
L’istruttoria nei confronti di Google e Street View è invece appena cominciata in Italia , dove il Garante della Privacy comunica di aver avviato un’indagine “per verificare la liceità e la correttezza del trattamento dei dati personali” da parte degli ingegneri del Googleplex . Il Garante ha invitato Google a “sospendere qualsiasi trattamento fino a diversa direttiva” sui dati di navigazione eventualmente carpiti dalle reti WiFi non protette, e nel mentre intende conoscere “la data di inizio della raccolta delle informazioni, per quali finalità e con quali modalità essa è stata realizzata, per quanto tempo e in quali banche dati queste informazioni sono conservate” e se i dati sono accessibili o sono stati ceduti a terzi.
La posizione di Google si fa delicata, ma a ridimensionare gli effetti della “raccolta involontaria” di informazioni è il CEO Eric Schmidt. Sostiene che Google ha “la policy per la privacy più imperniata sul consumatore di qualsiasi servizio online”, che il “danno effettivo” del presunto nuovo scivolone sarebbe pari a zero e che comunque la privacy dell’enorme mole di informazioni presenti online è un problema che l’intera società dovrà imparare ad affrontare da qui ai prossimi 50 anni. Non male, per uno che aveva già chiaramente espresso la convinzione del fatto che la privacy sia morta e del fatto che gli utenti che “si comportano bene” in rete non abbiano nulla da temere dal tecnocontrollo involontario di un gigante onnipresente come Google.
Alfonso Maruccia