Roma – L’ annuncio della possibile cessione delle frequenze WiMax ha dato luogo ad un’interessante discussione. La prima tra le varie questioni affrontate nel corso dei dibattiti che si sono susseguiti è stata quella se assegnare o meno le frequenze utili alla fornitura del servizio. In linea teorica non si può infatti scartare a priori l’ipotesi di assegnazione a titolo gratuito delle frequenze per la fornitura di servizi elettronici in modalità WiMax.
Nello specifico, da un punto di vista regolamentare, la libera utilizzazione può infatti prendere vita o nell’ambito del cosiddetto uso privato o dall’assegnazione a titolo gratuito di frequenze.
Nel nostro ordinamento per uso privato s’intende esclusivamente l’utilizzo di frequenze all’interno del fondo di proprietà del soggetto utilizzante, con esclusione quindi di qualsiasi altro utilizzo esterno al fondo stesso.
In sintesi, l’uso non commerciale tra soggetti collocati fisicamente in luoghi diversi non sarebbe – allo stato dell’attuale normativa – ammissibile, mentre lo sarebbe, per fare un esempio concreto, nel caso di utilizzo del WiFi (o del WiMax) all’interno di un Campus universitario.
Inoltre, al di là del concetto di “proprietà” come sopra inteso, cioè come “titolarità del diritto di proprietà su un fondo”, la fornitura del servizio sarebbe assoggettata ad un peculiare regime amministrativo denominato di “autorizzazione ad uso privato”, intendendosi con tale espressione la necessità di ottenere un’autorizzazione che consenta allo stesso proprietario di passare sopra la pubblica via e di collegare, per scopi non commerciali, il proprio fondo con una rete.
L’uso privato non sarebbe infatti mai configurabile nel caso di scopi commerciali del servizio.
Esclusa dunque la possibilità di configurare l’uso privato per usi che privati non siano, si potrebbe allora ritenere applicabile al WiMax lo stesso regime previsto per il WiFi, ovvero un regime che esclude la necessità di “assegnare” le frequenze “liberate”, un regime imperniato sulla necessità di ottenere una preventiva “autorizzazione generale” per la fornitura di servizi di comunicazione elettronica.
Com’è noto, la tematica dell’utilizzo “libero” delle frequenze appassiona da più di mezzo secolo giuristi, economisti, tecnici ed operatori di settore ed è stata oggetto anche di importanti contributi. In linea molto sintetica, alla base della soluzione che vorrebbe le frequenze “libere”, convergono due teorie: la prima in virtù della quale l’uso delle frequenze stesse non ha valore economico, ragion per cui mancherebbe il presupposto per chiedere un corrispettivo, mentre la seconda, prendendo atto dell’uso socialmente utile o costituzionalmente protetto delle frequenze stesse, conclude che ciò precluderebbe allo Stato la possibilità di chiedere un corrispettivo.
Con riguardo alla prima delle due teorie, potrebbe tuttavia obiettarsi che se qualcuno “usa” delle radiofrequenze, ciò significa che queste sono intrinsecamente “utili” e dunque “economicamente valutabili”. In realtà, solo valutando il tipo di attività nella quale tale uso si inserisce (in particolare se si tratti o meno di attività imprenditoriale) e la funzione che essa svolge, si potranno ottenere indicazioni circa l’esistenza di un rilievo economico delle attività stesse.
Fra l’altro, dopo attenta riflessione, anche in Italia si è giunti alla conclusione che i beni immateriali siano equiparabili agli altri beni (come gli immobili, le autovetture etc.) e che, al pari di questi, possano essere oggetto di cessione, di acquisto o di concessione qualora rientrino nel patrimonio indisponibile dello Stato (come nel caso delle frequenze radio).
Negli Stati Uniti, ove l’originaria disciplina delle radiofrequenze escludeva la titolarità di “property rights” in omaggio al principio della “libera espressione” tutelato dal primo emendamento della Costituzione Statunitense, è accaduto che l’assegnazione delle frequenze ha coinvolto, in mezzo secolo, sempre più valutazioni di tipo economico al punto di creare un sistema idoneo ad escludere accaparramenti proprietari ed in cui si concede a caro prezzo l’uso delle frequenze. E tutto ciò nonostante l’interesse mostrato dall’ex direttore della FCC (l’ente regolatorio sulle TLC negli USA) rispetto all’ open spectrum ovvero a quel movimento per la liberalizzazione delle frequenze che parte dagli utenti allo scopo di mettere la parola fine – tramite la condivisione dello spettro delle frequenze – all’etere privatizzato dalle aziende telefoniche, dalle società televisive e dai militari.
Peraltro l’idea di liberalizzazione, modellata sui principi – propri della condivisione delle risorse in rete – dell’economia del gift e della reciprocità e a cui aderiscono anche illustri pensatori come Larry Lessig , potrebbe in breve tempo scontrarsi con il paradosso creatosi nel mercato dell’open source all’interno del quale è nato un fiorente mercato di servizi aggiuntivi ed accessori alla fornitura dei software (per non utilizzare il termine di “contratti capestro” che vanno dalla manutenzione all’aggiornamento, alla formazione), creato ad hoc dalle major dell’informatica che si sono “lanciate” a capofitto nel business dell’open source. Questo mercato, in sostanza, palesandosi “molto ampio” rispetto alle iniziative libere, sta silenziosamente soppiantando la propria originaria economia di scambio gratuito, al pari di ciò che è avvenuto negli Stati Uniti nel mercato delle risorse radiofrequenziali.
Tralasciando per un attimo la tematica relativa alla libertà delle utilizzazioni e concentrandosi sulle modalità di allocazione delle risorse radiofrequenziali, va detto che da circa mezzo secolo negli Stati Uniti si riconosce alle radiofrequenze valore economico.
Il merito di tale riconoscimento – che vede nell’asta il modello più efficiente di allocazione delle radiofrequenze – negli Stati Uniti va riconosciuto all’allora studente del secondo anno della Chicago Law School Review, Herzel, il quale in una nota studentesca pubblicata nel 1951 evidenziava come, a suo parere, il sistema più efficiente per assegnare le licenze (all’epoca per la televisione a colori) fosse l’asta. L’approccio di Herzel era quello di adottare meccanismi di mercato analoghi a quelli utilizzati per altre risorse “limitate”.
La nota di Herzel fu ripresa alcuni anni dopo anche da Ronald Coase, nel 1959, in un articolo dedicato alla Federal Communications Commission (precedente, peraltro, al suo “The Problem of Social Cost” che fruttò all’autore l’assegnazione del premio Nobel).
Secondo Coase, in sintesi:
a) l’amministrazione non dispone degli strumenti per valutare i costi ed i benefici delle frequenze;
b) l’amministrazione non dispone delle informazioni di cui invece dispongono gli operatori economici né è tantomeno in grado di conoscere le preferenze dei consumatori;
c) proprio perché le frequenze rappresentano un “bene scarso” la loro allocazione secondo i prezzi di mercato è in grado di assicurare la loro efficiente distribuzione, evitando al contempo che taluno possa strumentalizzarne l’ottenimento.
Questo deve valere anche per l’uso delle frequenze da parte dello Stato e degli altri enti pubblici, i quali devono valutare la convenienza all’uso diretto delle frequenze stesse, rispetto ad un’eventuale loro assegnazione a terzi a titolo oneroso.
Coase, in sostanza, sostenne che fosse l'”esclusività” delle radiofrequenze l’elemento idoneo ad impedire il caos, nella stessa misura in cui l’esclusività su un terreno consente di prevenire conflitti fra diversi titolari che intendano utilizzarlo in modi diversi.
In seguito, anche altri studiosi si posero il problema di poter considerare le risorse comuni come strumento di libertà nell’evoluzione naturale della società umana: in particolare uno studioso statunitense, Garrett Hardin, nella sua Tragedy of the commons del 1968, espresse il principio in base al quale in presenza di una risorsa comune non protetta da diritti esclusivi di proprietà, l’accavallarsi di pretese individuali avrebbe generato il caos. Hardin sostenne che i beni collettivi fossero intrinsecamente tragici: quello che li renderebbe affascinanti sarebbe, al tempo stesso, causa della loro rovina.
Se tutti i pescatori attingessero senza limiti ai banchi di pesce, questi, inizialmente molto forniti, inevitabilmente col passare del tempo esaurirebbero le proprie risorse della cui integrità nessuno si occupa; le risorse stesse si esaurirebbero proprio perché sono state trattate come risorse comuni, cui tutti possono attingere.
I fautori della piena libertà delle frequenze usano spesso citare il fenomeno della germinazione spontanea delle radio libere avutasi negli anni 70 come esempio positivo di ciò che potrebbe accadere (ovviamente con le dovute differenze) attraverso la piena liberalizzazione (non assegnazione, dunque) delle frequenze WiMax. Quella stagione irripetibile di libertà di espressione è tuttavia molto diversa da quello che è accaduto negli ultimi due anni con la “liberalizzazione” del WiFi, il quale rappresenta la situazione più simile al WiMax, sia dal punto di vista contenutistico che temporale. Com’è noto, le frequenze destinate al WiFi sono libere e libere si vorrebbero anche le frequenze destinate al WiMax. Tuttavia, in questi due anni si è assistito ad una realtà ben diversa da quella propugnata dai fautori della libertà totale nell’uso dello spettro. Al di là degli utilizzi privati, infatti, il WiFi ha assunto sempre più i connotati del “WiFi pubblico”, ovvero di un servizio “sponsorizzato” dalle pubbliche amministrazioni decise ad eliminare il fenomeno del digital divide.
Le iniziali intenzioni, dunque, lodevoli nei loro presupposti e forme, si sono tuttavia presto trasformate in un “mare magnum” senza alcuna regola. In diverse regioni italiane si è assistito al proliferare di società nate dal nulla e senza alcun progetto sostanziale, a volte solo perché l’Amministrazione locale disponeva di capitale da investire. In altri casi, società miste pubblico-private o ex municipalizzate ovvero società pubbliche multiutilities, semplici Comuni o Associazioni di Enti Locali, si sono lanciate con entusiasmo (ed utilizzando tutto il loro potere) nel mercato del wireless, escludendo in maniera netta le giovani o meno giovani realtà imprenditoriali locali.
Ed ancora, in altri casi, è stato utilizzato il concetto di “rete civica” al fine di celare in realtà un meccanismo di business da finanziare in maniera surrettizia con i contributi dei cittadini imposti per la fornitura di “servizi aggiuntivi”.
Altre volte poi, piccoli e medi provider sono venuti quasi alle mani pur di accaparrarsi una fetta del mercato locale; sono arrivati ad attuare strategie idonee ad ostacolare l’ingresso di nuovi concorrenti sul territorio, impedendo di fatto l’accesso agli apparati o l’interconnessione alle reti, lamentando ad esempio che, a causa del “rumore” determinato dall’uso delle frequenze da parte dei concorrenti, la fornitura del servizio non potesse essere attuata a certe condizioni economiche.
Da ultimo, si ricorda che in alcuni casi le grandi società di informatica e di telecomunicazioni hanno fatto valere tutti i loro buoni uffici presso le amministrazioni locali, le quali, un po’ per ignoranza, un po’ per ragioni di quieto vivere, hanno lasciato fare ed hanno effettivamente destinato soldi pubblici per progetti non adeguatamente ponderati e trasparenti.Tutto questo ha, fra l’altro, aumentato in maniera impressionante il tasso di litigiosità tra gli operatori e tra questi e le pubbliche amministrazioni, con un aumento esponenziale dei ricorsi in tribunale.
Questo scenario suggerisce due interpretazioni:
1) la prima è che le frequenze, a prescindere da un utilizzo idealmente libero, hanno importanti riflessi economici che non sarebbe realistico cercare di nascondere;
2) la seconda è che l’assenza di paletti posti a presidio di una corretta esplicazione della libertà di iniziativa economica nel mercato delle telecomunicazioni, rischia di creare un caos tecnico-giuridico ed economico di dimensioni tali da vanificare l’effetto che tutti noi speriamo sia superato presto, ovvero l’eliminazione del digital divide.
Ciò non toglie, naturalmente, che alcuni principi relativi all’uso privato e quindi alla non assegnazione delle frequenze possano comunque trovare applicazione.
Il concetto di “frequenza libera” potrebbe ad esempio essere utilizzato al fine di evitare i conflitti tra gli assegnatari, per quanto concerne la porzione di frequenze utili alle cosiddette bande di guardia . In sostanza, le frequenze libere potrebbero essere lasciate (in proporzione infinitesimale) in corrispondenza dei punti di interferenza tra reti (anche se nel caso di frequenze radio è estremamente difficile stabilire tali zone) al fine precipuo di evitare possibili strumenti di conflitto, analogamente a ciò che avviene nel caso in cui due proprietari lascino una “zona neutra” fra i propri fondi al fine di prevenire possibili conflitti.
Come eliminare il digital divide attraverso il WiMax
Il WiMax può tuttavia rappresentare un’importante risposta alle istanze di eliminazione del digital divide.
Credo che sia molto interessante, ad esempio, l’ idea di consentire allo Stato, nel momento dell’assegnazione di radiofrequenze, di porre in capo ai soggetti assegnatari l’obbligo di destinare una percentuale delle frequenze stesse a zone afflitte dal cosiddetto Digital Divide. E, si badi bene, un obbligo consistente niente affatto nel lasciare una quota dello spettro “libera” ma, al contrario, nel costringere l’assegnatario stesso ad attivarsi positivamente per eliminare il divario digitale.
A mio giudizio, questa strada è estremamente praticabile grazie anche ad un nuovo strumento legislativo di matrice europea che conferisce allo Stato la possibilità di scegliere il soggetto cui assegnare determinate risorse pubbliche – in deroga alle consuete valutazioni di tipo economico condotte al momento dell’assegnazione degli appalti pubblici – a chi presenti il piano maggiormente compatibile con le esigenze sociali od ambientali di quel territorio, obbligandolo, in fase di esecuzione dell’accordo, a coprire effettivamente quella zona, pena la risoluzione del contratto stipulato con eventuale attribuzione della quota di spettro a chi sia effettivamente in grado di coprire la zona digital-divisa.
Questa scelta può essere esplicitata sia nel bando di gara, che attuata nel corso dell’esecuzione del contratto ed è prevista dal nuovo Codice degli Appalti.
Concretamente, lo Stato può assegnare le frequenze tenendo in considerazione non tanto gli aspetti economici ed i relativi introiti che possono derivare dalle concessioni delle radiofrequenze, quanto i profili di miglioramento che i progetti presentati dagli operatori sono idonei ad apportare alle popolazioni di quel territorio. In tal modo, lo Stato potrebbe obbligare i potenziali assegnatari, scelti su base locale o nazionale, ad indicare già all’interno del progetto le zone del territorio locale che necessitano di un’effettiva copertura.
Questa soluzione sarebbe inoltre idonea ad evitare che l’operatore o gli operatori dominanti evitino di comprare le licenze solo per “uccidere nella culla” il WiMax al fine di proteggere, ad esempio, gli investimenti effettuati nella telefonia mobile o per perpetrare le condizioni di dominanza.
Fulvio Sarzana di S.Ippolito
(Studio Legale Sarzana e Associati)
www.lidis.it
sull’argomento vedi anche:
Banda larga WiMax, ISOC avverte: dev’essere libera
Il WiMax? Prima di tutto nelle aree digital divise