Nani ed elfi possono scorrazzare liberi e progredire nelle proprie abilità, ma solo nei reami certificati da Blizzard. I server pirata, mondi paralleli istituiti da terze parti e governati da regole che possono discostarsi da quelle fissate dal demiurgo videoludico, non sono autorizzati ad esistere. E non possono istituire modelli di gioco e di business paralleli rispetto a quelli di Blizzard. A stabilirlo, la decisione di una Corte Distrettuale californiana.
Il caso si è aperto nell’ottobre 2009: Blizzard, vigile governatore di World Of Warcraft, si era scagliata contro tale Alyson Reeves, a capo di un’azienda chiamata Scapegaming. Scapegaming aveva sviluppato un mondo parallelo rispetto a WoW, insediato su server privati e sostenuto da regole proprie. Un sistema di transazioni faceva da sfondo alla vita nel reame: era possibile acquistare oggetti e far avanzare il proprio personaggio in cambio di denaro. Scambi , gestiti sotto forma di donazioni, che oscillavano dalle microtransazioni da un dollaro per arrivare ai 300 dollari necessari per accaparrarsi quanto necessario per bardare di tutto punto il proprio avatar.
Una diramazione redditizia per Reeves, che Blizzard ha deciso di recidere passando per il tribunale. Spodestando 427mila fra umani, non-morti, gnomi, troll e razze variegate. L’accusa era quella di violazione dell’EULA : il codice di WoW sarebbe stato riadattato per dare spazio a nuove regole, la proprietà intellettuale di Blizzard sarebbe stata rimasticata per dare vita a un mondo da popolare di gamer e da spremere senza alcuna autorizzazione da parte della casa madre. Reeves sembra non aver reagito alle accuse, la corte ha accordato a Blizzard la vittoria e un risarcimento cospicuo.
Si tratta di oltre 88 milioni di dollari , poco meno di 70 milioni di euro. 3 milioni di dollari sarebbero da ricondurre ai profitti munti illegalmente da Reeves; 63mila dollari imputabili alle spese legali sostenute da Blizzard; 85.478.600 dollari di risarcimento danni causati dalla violazione della proprietà intellettuale di Blizzard. Danni che la corte ha calcolato moltiplicando 200 dollari per ciascuno degli utenti del server privato.
Non si tratta della prima occasione in cui Blizzard si avventa sulle derivazioni non autorizzate del suo dominio online: è successo con altri reami privati , ha conseguito una discussa vittoria contro il server open source BnetD, ha sbaragliato coloro che tentavano, a mezzo bot, di sovvertire i delicati equilibri che sorreggono l’esperienza di gioco che ha messo a punto per i propri utenti. Il tutto, nonostante ci sia chi sostiene che queste derivazioni possano contribuire a solleticare l’interesse di gamer che sceglieranno poi la rassicurante armonia che aleggia nel mondo ufficiale.
Gaia Bottà