Monetizzare ogni canale, permeare di comunicati pubblicitari ogni flusso di contenuti: Google sfodera due nuovi ingranaggi pubblicitari, si insinua nei casual game e sfida le perplessità dell’industria dei contenuti architettando per YouTube un modello di business basato sulla vendita dei contenuti che gli utenti postano nel rispetto e in violazione del copyright.
Dita reattive su mouse e tastiera, il casual gamer vedrà irrompere il comunicato pubblicitario in attesa di ritagliarsi una pausa caffè videoludica, un nuovo traguardo raggiunto sarà sponsorizzato dall’inserzionista registrato a Google AdSense for Games : immagini, minivideo, link accattivanti popoleranno i livelli dei flash game, verranno integrati in maniera non invasiva nell’esperienza di gioco, peraltro decisamente meno immersiva rispetto a quella di tanta parte dei videogiochi tradizionali.
Ad annunciare l’irruzione della grande G in un mercato della videoludica casuale già colonizzato da Yahoo e da Microsoft è un post sul blog ufficiale di Google AdSense: BigG ricorda agli sviluppatori di giochi online che quanto sfornano è una potenziale mucca da mungere, che il 25 per cento dei netizen, 200 milioni di utenti in tutto il mondo, si intrattengono ogni settimana con i game online. Quella di Google è un’offerta che non si può rifiutare: gli sviluppatori di casual game che possono contare su almeno 500mila partite giocate e sull’80 per cento del traffico generato da cittadini della rete statunitensi o britannici potranno sperimentare con la pubblicità somministrata da Mountain View e mettere a frutto la propria opera.
Che Google meditasse di iniettare del fluido pubblicitario nei videogame è noto da tempo: a suggerirlo, una sperimentazione a numero chiuso iniziata lo scorso novembre, l’ acquisizione di Adscape Media, la registrazione di un brevetto per profilare i gamer sulla base dei comportamenti assunti negli scenari di gioco. Pare però che l’intelligenza pubblicitaria di Google non intenda dispiegarsi al punto di sfruttare i casual game come test psicologici: gli annunci pubblicitari mireranno a un target, ma il bersaglio sarà inquadrato dalle caratteristiche sociodemografiche di chi si intrattiene nei giochini , dal sito nel quale è inserito il game.
“Gli inserzionisti si rivolgono a noi per una soluzione multipiattaforma che permetta loro di raggiungere una audience nell’ordine dei milioni ma che al tempo stesso si possa suddividere in target precisi” spiega Christian Oestlien, product manager di Google: i game online interpretano alla perfezione le richieste degli inserzionisti in quanto consentono di somministrare annunci obbligatori a “decine di milioni di player tra i 18 e i 35 anni, uomini e donne, che si lasciano avvincere in un’attività online”. Nel futuro, Google potrebbe spingersi oltre: Oestlien accenna alla possibilità che Google faccia da intermediario fra gli sviluppatori e gli inserzionisti che desiderino costruire advergame attorno al loro brand. Le opportunità di monetizzare investono anche il sistema YouTube, che ancora stenta a reggersi su un solido modello di business. Non si tratta di semplice pubblicità che attornia video e che si infila nei player , piuttosto i contenuti postati dagli utenti si trasformano in una proposta d’acquisto .
La sperimentazione, annunciata dal fondatore Chad Hurley nei mesi scorsi, è stata avviata solo negli States, con un numero ristretto di partner: i video postati dagli account dietro cui si cela EMI Music, le clip che ritraggono le creature di Spore caricate dai rappresentanti di Electronic Arts verranno accompagnati da link che proiettano l’utente direttamente sullo store di Amazon e su iTunes. “Il nostro obiettivo è quello di aiutare partner che operino in ogni tipo di industria, da quella della musica a quella del cinema, dalla stampa alla televisione, ad offrire prodotti utili e rilevanti ad un pubblico vasto e già targettizzato – spiegano da Mountain View – e a generare ulteriori revenue a partire dal loro contenuto su YouTube, oltre alla pubblicità che affianchiamo ai loro video”. YouTube tenterà di tradurre in acquisti l’interesse suscitato dalle clip.
YouTube potrebbe trasformarsi in un intermediario per l’ecommerce, in un canalizzatore di acquirenti per merci digitali: YouTube consentirà di sperimentare sul campo il modello che l’industria dei contenuti fatica ad assorbire e che dimostra di non aver compreso, scagliandosi in una lotta senza quartiere contro gli utenti che rilanciano online i contenuti coperti dal diritto d’autore. Agli attori dell’industria più progressisti, Google lancia una proposta: invece di invocare rimozioni e indagini, perché non tentare di convertire in visibilità e in potenziali acquisti anche i contenuti postati dagli utenti? YouTube dispone di un sistema di identificazione dei contenuti postati in violazione del copyright: potrebbe essere imbracciato come uno strumento per individuare i contenuti da corredare di link agli store online.
Per ora i link agli store online sono mimetizzati sotto alle funzionalità sociali per condividere e far rimbalzare la clip in rete. Mountain View si propone però di estendere l’esperimento: si stabiliranno nuove partnership e ci rivolgerà a nuovi mercati. Non si parla della possibilità di etichettare i contenuti con link pubblicitari , di trasformare aree ed elementi di ciò che scorre sullo schermo in un’ancora pubblicitaria, in un canale capace di catapultare il netizen in uno store online.
Gaia Bottà Roma – È difficile non pensare a YouTube come ad un successo. È uno dei siti più visitati in assoluto, la libreria di video più vasta e importante della rete, nonché una società che Google ha valutato 1,65 miliardi di dollari. Eppure non è una notizia il fatto che YouTube, frenato ed esaltato dai contenuti generati dagli utenti, non sia anche un successo economico. A tre anni dalla sua nascita e a due dal suo ingresso nelle braccia del più grande rivenditore di spazi pubblicitari, il sito che ospita il 34% dei video visti in rete (dati comScore ) ha dato vita ad un settore ora pieno di diverse diramazioni e di competitor ma che non trova un modello di business valevole.
AlleyInsider sostiene che nel 2008 Google è riuscito a monetizzare solo il 4% circa dei 4,2 miliardi di video che i suoi utenti hanno visto , cioè più o meno 126 milioni di video, e attraverso un sistema non eccessivamente redditizio. E nonostante 126 milioni di video sia comunque una cifra considerevole, bisogna aggiungere che la società deve sopportare anche costi di banda e di hosting non indifferenti. Senza contare le infinite spese legali che le accuse di violazione del copyright gli portano.
Di contro un servizio come Hulu.com (una joint venture tra studi di produzione visibile solo ai residenti in America) mandando in streaming gratuitamente e legalmente film e show televisivi dai principali network (NBC, Universal, Fox, Warner, CBS ecc. ecc.) riesce a monetizzare ogni singolo minuto dei suoi 88 milioni di video visualizzati. Si tratta di circa un quarto in meno di quanto ha fatto YouTube e con costi infinitamente minori.
Hulu non è uno strumento sociale, sfrutta un’incredibile inerzia creativa e produttiva consentendo, a fronte di poca pubblicità, la visione gratuita di contenuti che già sono passati in televisione e che hanno l’unico vantaggio della disponibilità on demand.
YouTube invece è pieno di contenuti originali, creativi e interessanti che sono visti, consigliati, inviati via mail, embeddati nei blog e commentati migliaia di volte ma che lo rendono inaffidabile per gli investitori, i quali non credono nella pubblicità associata ai video generati dagli utenti e ne temono i contenuti imprevedibili. In sostanza ad oggi se mantiene i contenuti generati dagli utenti i costi a loro legati gli impediscono di decollare economicamente mentre se li elimina perde tutto il suo successo a favore di chi, come Hulu, i contenuti professionali li produce e li gestisce in casa. Questo perché sono proprio la socialità e i contenuti generati dagli utenti la componente più dirompente e devastante del video online, capace di creare nuovi modi di vivere ed entrare in contatto con le forme di racconto audiovisuale.
E la dimostrazione più evidente di tutto questo è che dopo anni di dominio della tecnologia le cattive compagnie sono tornate ai vertici delle fobie sociali. Ora infatti sono di nuovo gli esseri umani, benché comunque attraverso una tecnologia (che rimane un oggetto sconosciuto per molti e dunque spaventoso), a costituire una delle principali fobie sociali : quelli che “entrano nelle vostre case attraverso le connessioni internet dei vostri computer (per) incoraggiare i bambini a costruirsi un Bong o bersi una birra a 13 anni” sono parole di John Walters, direttore dell’Office of National Drug Control Policy, un organo costituito dal governo degli Stati Uniti d’America, paese tecnologicamente più evoluto della media.
Dunque le persone guardano e molto i contenuti prodotti da altri utenti ma gli investitori pubblicitari non vogliono esservi associati e in questo modo la situazione non fa che peggiorare . Secondo un sondaggio fatto presso i principali network da NewTeeVee un annunciatore di uno show settimanale in rete come può essere Rocketboom guadagna da un minimo di 100 dollari a puntata ad un massimo di 1.000, cioè 4.000 dollari al mese di guadagno massimo per un business dove i visitatori si possono contare in alcuni casi anche nell’ordine dei milioni.
Inoltre sempre i principali network spiegano che con l’aumentare degli utenti e del materiale video si abbassa il CPM (cioè il costo di uno spot per migliaio di impressioni) il quale è passato in un anno da una forbice che oscilla in media tra i 20 e i 30 dollari (a seconda del piazzamento e del tipo di video) ad una che oscilla tra i 10 e i 20 dollari.
Infine se si calcola quanto incida l’investimento pubblicitario nei video in rete sul totale televisivo si scopre che oggi conta per una parte minima e anche le previsioni più rosee sostengono che tale stima possa arrivare ad essere il 7,6% del totale per il 2013. Questo a meno che non succeda qualche sconvolgimento.
E quello sconvolgimento oggi Google lo identifica con il commercio parallelo, cioè vendere (o per il momento aiutare a vendere) beni collegati ai video fruiti, qualsiasi essi siano. Tra le prime e più facili applicazioni di questo progetto c’è la vendita dei videogiochi abbinati ai video di gameplay e quella ancora più importante della musica che si ascolta nei suoi video (attraverso partner come iTunes o Amazon Mp3). Cosa che in realtà al momento è una falsa soluzione al problema perché si basa essa stessa su un altro assunto problematico e cioè che nella più grande risorsa di video in rete il contenuto più fruito è la musica e non il video UGC (che sta nella parte più lunga della coda). A dimostrarlo può bastare il fatto che ben 6 clip tra le 10 più viste di tutti i tempi sono musicali e una è di danza, mentre l’unica UGC è in decima posizione.
Gabriele Niola
Il blog di G.N.
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