Il 4 giugno centinaia di persone si sono unite a diversi eventi su Zoom per celebrare il trentunesimo anniversario delle proteste di piazza Tienanmen. Della vicenda abbiamo già scritto in settimana, prima citando il ban deciso nei confronti di alcuni degli organizzatori, poi per via della richiesta di chiarimenti sulla vicenda giunta dalla politica e dalle istituzioni USA. La replica della società non si è fatta attendere: confermate le pressioni ricevute dalla Cina.
I ban di Zoom agli attivisti su richiesta di Pechino
Con un intervento pubblicato sulle pagine del blog ufficiale, il team al lavoro su Zoom spiega quanto accaduto, ammettendo le proprie colpe e dichiarando senza ricorrere a giri di parole di aver commesso due errori:
- ha sospeso o eliminato tre account degli organizzatori, uno di Hong Kong e due statunitensi, ripristinandoli in un secondo momento;
- ha interrotto i meeting anziché bloccare i partecipanti a seconda dello stato in cui risiedono.
In merito a quest’ultima misura, inizialmente non resa nota, la piattaforma ammette di non essere al momento in grado per ragioni tecniche di bloccare i partecipanti a una riunione sulla base della loro provenienza geografica.
Avremmo dovuto prevedere questa necessità. Anche se ci sarebbero state ripercussioni significative, avremmo potuto mantenere attivi i meeting.
Zoom racconta di aver ricevuto le richieste di bloccare le commemorazioni da parte delle autorità di Pechino nei primi giorni di giugno. Nel comunicato di oggi la volontà di aggiustare il tiro.
Da ora in avanti Zoom non permetterà alle richieste provenienti dal governo cinese di impattare qualcuno al di fuori della Cina.
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Tra coloro non soddisfatti del mea culpa anche Wang Dan, uno degli organizzatori colpiti dal ban temporaneo, nel 1989 presente tra gli studenti manifestati in piazza Tienanmen.
Zoom ha accontentato le richieste della Cina, non può cavarsela semplicemente con un comunicato. Continueremo a utilizzare vie legali e confronti pubblici per chiedere a Zoom di assumere la responsabilità dei propri errori.
Il servizio ha ad ogni modo sottolineato di non aver ceduto le informazioni degli utenti alla Cina né a realtà terze.