La bugia della Internet-Mercato

La bugia della Internet-Mercato

di Massimo Mantellini. Chi naviga in rete sembra più interessato alle informazioni che agli acquisti online. Un recente studio informa su quanto abbiamo in fondo sempre saputo: la internet-mercato era una bugia interessata
di Massimo Mantellini. Chi naviga in rete sembra più interessato alle informazioni che agli acquisti online. Un recente studio informa su quanto abbiamo in fondo sempre saputo: la internet-mercato era una bugia interessata


Roma – Era evidentemente necessario il crollo verticale di molti siti di e-commerce perché qualcuno si decidesse a mostrare una statistica nella quale sia scritto, nero su bianco, quello che abbiamo intimamente sempre saputo. Traduco letteralmente dalle conclusione di uno degli ultimi report di Pew Research datato dicembre 2000: ” Chiaramente, la popolazione online vede Internet più come un mezzo per raggiungere informazioni e comunicare che non per transazioni commerciali…. La grande maggioranza degli americani ci ha detto che Internet migliora le loro comunicazioni con parenti e amici, favorisce i loro hobbies e li aiuta a imparare nuove cose e a ottenere risposte a domande…”

Era necessario che gli affari in rete andassero male, che i titoli tecnologici calassero del 50% in un anno, che molti investitori d’assalto abbandonassero Internet, perché si alzasse finalmente il velo su una delle bugie più grandi che abbiamo dovuto ascoltare in questi anni. Quella che Internet fosse, prima di ogni cosa, il nuovo mercato globale, in funzione del quale tutto dovesse essere modellato e adattato.

Le conseguenze di questo interessato fraintendimento sono state più deleterie dell’idea stessa di una internet-mercato dove tutti comprano e vendono tutto. Come è noto, i mercati, persino più dei governi, hanno necessità di regole e steccati, di sicurezza e controlli, di certa identificazione e perseguibilità.

Le grandi questioni, in discussione ormai da anni (e a tutt’oggi senza riconosciute soluzioni) della privacy, del copyright, della (eventuale) imposizione di dazi doganali o della natura stessa delle transazioni online, sono tutte state impostate nella capibile ottica di una “internet-a-misura-di-business”: nella certezza che tali normative sarebbero andate a incidere e a regolare, prima di ogni altra cosa, un rapporto fornitore-consumatore.

Mentre la Internet-mercato organizza barriere, vetri antisfondamento, sistemi di allarmi e modalità di riconoscimento e catalogazione della clientela, la Internet informativa citata nel report di PEW, ha esigenze di segno opposto. Per la sua stessa essenza di moltiplicatore di conoscenze chiede libera circolazione, apertura a ogni forma di espressione, tutela dell’anonimato.


Si tratta, è evidente, di due universi antitetici. Già da qualche tempo sembra definitivamente tramontata l’idea romantica della rete delle reti come “spazio per tutti” nel quale possano coesistere stili e impostazioni differenti. Se l’ascesa vertiginosa del commercio elettronico fosse continuata ancora, con il corollario di marketing più o meno selvaggio che si trascina dietro, nel giro di qualche tempo non ci sarebbe stata altro che una Internet nella quale la comunicazione fra pari fosse un corollario tollerato di quella commerciale e dove lo scambio di informazioni fosse, in qualche maniera, riconducibile a una forma di transazione a pagamento. Basta guardarsi attorno per osservare come perfino le bacheche elettroniche, i forum web, i gruppi di discussione e le mailing list (ambiti in cui i contenuti sono a costo zero in quanto fornito gratuitamente dall’utente) siano ormai oggetto di insistiti tentativi di monetizzazione di ogni genere.

Occorre non farsi ingannare: anche nella frenetica euforia del gratuito che per tanto tempo ha infuriato in rete (ora sulla strada di un vistoso ridimensionamento), quasi tutto è sempre stato invece segretamente “prezzato”. Quasi tutto aveva un valore di mercato a cominciare dalle nostre iscrizioni gratuite a questo o quel servizio di accesso free a Internet, fino alla banale sottoscrizione di una newsletter di ricette di cucina. E le iniziative davvero gratuite (anche quelle meritorie e degne di largo seguito) sono spesso state cannibalizzate da imprenditori particolarmente disinvolti: penso per esempio ai testi letterari di Liber Liber , frutto del lavoro di trascrizione di decine di volontari, che negli anni hanno dato vita a uno dei più interessanti (e realmente gratuiti) progetti culturali in rete, diventati in un attimo parte della biblioteca di Logos.it, una società di traduzioni di Modena, fino a qualche tempo fa in odore di quotazione in borsa, che nel suo sito web, wordtheque.com, raccoglie (per dirla con le illuminanti parole di Logos stessa) “.. quasi 16.000 titoli in 113 lingue, razziati in 3 anni di scorribande in rete, là dove esisteva un sito che consentisse uno scarico gratuito di un testo…”

Di esempi del genere, piccoli o grandi tentativi di sfruttamento del patrimonio della comunità internet, se ne possono portare moltissimi: compreso il recente libro di Mark Bernardini di cui Alessandro Venturi parla in un altro articolo di questo numero di Stand By: e se da un lato è vero che spesso il confine fra iniziative amatoriali e business può essere molto labile, dall’altro un buon numero delle vicende legali più recenti (pensate solo al caso Napster) sono state scatenate nel momento in cui qualcuno ha ceduto alla voglia irresistibile di vendere o far fruttare un bene che non è completamente suo. L’idea che qualcosa (come Internet) possa essere “di tutti” è, per certe persone, evidentemente intollerabile.

Massimo Mantellini

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Pubblicato il
13 gen 2001
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