In questo pezzo parliamo dell’arbitraggio sui motori di ricerca, argomento rilanciato in questi giorni anche da un articolo su Forbes .
Prima però occorre descrivere il contextual advertising (chi lo conosce, salti pure questo paragrafo). Funziona così: un gestore di siti web ( publisher ) inserisce nelle sue pagine la pubblicità degli inserzionisti dei motori di ricerca (il servizio di contextual advertising di Google si chiama AdSense). Ogni volta che uno di questi spazi pubblicitari viene cliccato, il publisher riceve una percentuale di quello che incassa il motore di ricerca dall’inserzionista.
Uno dei modi (a volte l’unico) utilizzato dai publisher per sviluppare visite, è quello di acquistare click utilizzando gli stessi i motori di ricerca. L’accorgimento è quello di pagare questi click un po’ meno di quanto si ricaverà dagli importi che deriveranno dal contextual advertising ospitato sulle proprie pagine.
Probabilmente è capitato a tutti di selezionare un box pubblicitario su Google e finire su una pagina che in realtà è una mera raccolta di altri link sponsorizzati. Ok, quella pagina è tipicamente parte di un sito affiliato a Google, Yahoo!, o a qualche altro network, di cui riprende una serie di investitori pubblicitari. Attenzione, non è un fenomeno da poco: sono migliaia i siti che operano in questo modo (molti anche in Italia) e c’è anche chi attraverso questo meccanismo guadagna milioni di dollari come segnala l’articolo di Forbes , su cui si sofferma anche Andy Beal .
L’arbitraggio è comunque una pratica lecita, applicata peraltro in molti altri settori economici. Tuttavia, l’uso che se ne fa sui motori di ricerca penalizza sensibilmente, a mio modo di vedere, l’esperienza di navigazione. A volte, facendo ricerche su keyword competitive, è quasi impossibile arrivare ad un sito finale se non passando per questa specie di “filtri pubblicitari”. Questi siti affiliati inoltre, non sempre indicano chiaramente che i link che propongono sono pubblicità pagata. Così come è piuttosto evidente il cointeresse dei motori di ricerca a stimolare questo meccanismo perché, di fatto, moltiplicano i loro introiti pubblicitari prendendo sia i denari dei publisher che degli inserzionisti ospitati sui siti dei publisher stessi.
L’attenzione sull’arbitraggio è anche dimostrata dal fatto che da qualche edizione delle conferenze Search Engine Strategies c’è un’apposita sessione dedicata al fenomeno. Sulla conferenza di Chicago tenuta in questi giorni c’è un sintetico resoconto su Search Engine Roundtable in cui si sottolinea altresì l’associazione che si sente fare spesso tra arbitraggio e click fraud (l’ultima quella di BusinessWeek). In alcune occasioni mi ha sorpreso ascoltare l’opinione di alcuni di questi publisher (ma anche degli stessi motori di ricerca) secondo la quale sembra che agli utenti piaccia finire su questo tipo di siti. Praticamente, pare ci sia la consapevolezza di trovarsi in un catalogo di inserzionisti, ma con la comodità di averli tutti disponibili in una pagina. Insomma una specie di surrogato delle directory, le quali per contro sono state relegate negli ultimi anni in qualche angolo nascosto dei motori di ricerca.
Io non sono molto convinto dell’utilità di questi contenuti, specie in veste di utente dei motori di ricerca. Non a caso, le regole più recenti imposte agli inserzionisti di Google dovrebbero rendere meno facile creare delle pagine di scarsa qualità per l’utente. Tuttavia, a me sembra si stia evolvendo la logica delle doorpages , ossia le pagine web zeppe di keyword ripetute che cercano di scalzare la vetta dei risultati standard, additate come spam dagli stessi search engine . In quel caso, nella maggior parte dei casi, almeno si arrivava su una pagina aziendale coerente con le keyword cercate. Oggi invece si clicca sulla pubblicità sui motori di ricerca e si finisce troppo spesso su una raccolta di ulteriore pubblicità, non sempre palesata come tale, su cui i primi a guadagnare sono proprio i motori di ricerca che sono partner dei siti in questione.
Che ne dite?
Mauro Lupi
Mauro Lupi Blog
Nota: Mauro Lupi è co-fondatore e presidente di Ad Maiora
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