Pro e contro/ Misurare la rete

Pro e contro/ Misurare la rete

L'editoriale di Mauro Lupi (AdMaiora) su come le aziende italiane siano spesso restìe a ricorrere agli analytics per studiare i risultati ottenuti in rete - NeCoSi (Geekplace) interviene sul perché certi analytics dovrebbero essere evitati
L'editoriale di Mauro Lupi (AdMaiora) su come le aziende italiane siano spesso restìe a ricorrere agli analytics per studiare i risultati ottenuti in rete - NeCoSi (Geekplace) interviene sul perché certi analytics dovrebbero essere evitati

A differenza dei principali mezzi pubblicitari tradizionali, la comunicazione attraverso internet può essere misurata in profondità in quanto a efficacia e risultati generati. Per fare ciò, si utilizzano applicazioni software e tecniche operative che rientrano sotto il nome di “analytics”. Tuttavia, la pratica di “misurare internet” non è così diffusa come potrebbe sembrare, specie nel nostro paese. In questo articolo cercherò di analizzare i problemi che limitano lo sviluppo di una vera “cultura della misurazione”.

Chiaramente, decenni di comunicazione “non misurata” (o meglio, misurata solo a consuntivo, e con molta approssimazione), condizionano tuttora il modo di pensare di chi pianifica pubblicità. Per cui, ad esempio, è normale immaginare che il resoconto di una campagna banner sia presentato a fine campagna con un bel totale generale di impression visualizzate e click generati. È come leggere i dati Auditel il giorno dopo per capire l’audience raggiunta (presumibilmente) da uno spot.

Solo che internet si presta ad un approccio metodologico totalmente differente, in cui la campagna di comunicazione dà il meglio di sé in quanto iniziativa dinamica, camaleontica, capace di modificarsi e adattarsi costantemente, migliorando “on going” performance e ROI.

Un esempio veloce. Il buon senso suggerisce che una determinata creatività grafica può risultare più o meno efficace in relazione al sito su cui viene esposta; il che significa che se la pianificazione prevede più di un sito su cui verranno visualizzati i banner, il risultato potrebbe essere differente per ogni destinazione. E allora: perché non declinare la creatività in base a soluzioni cromatiche differenti e vedere, sito per sito, quali funzionano meglio? È un piccolo accorgimento che, talvolta, permette semplicemente di raddoppiare le performance!

Indubbiamente misurare la comunicazione online non è qualcosa che si risolve magicamente con un tool. Ho sentito Massimo Fubini di Tomato Interactive : “Il modo del web-analytics è tanto affascinante quanto di difficile comprensione. La cosa più subdola è che l’attività non sembra difficile e così si cade nell’errore che, guardando due grafici riassuntivi, si possa avere un’idea di quello che avviene nel nostro spazio virtuale. Purtroppo non è così. I dati sono sì facili da leggere, ma molto difficili da interpretare correttamente. È un’attività principalmente time-consuming”.

Alessio Semoli di Conversionlab conferma la preoccupazione: “Purtroppo oggi in Italia non si è ancora diffusa una mentalità orientata alla misurazione dei dati e delle performance di campagne pubblicitarie; si approccia il mezzo web come un mezzo tradizionale, non sfruttando quindi a pieno le potenzialità di strumenti di misurazione che possono dare immediate informazioni strategiche. I budget investiti in Web Analysis sono ancora molto ridotti, ma alcune aziende stanno comprendendo l’importanza di calcolare il ROI di ogni singola campagna, creatività, landing page e capire soprattutto come l’utente si muove e se trova quello che cerca”.

Il vero problema, a mio modo di vedere, è di tipo culturale. E qui mi riferisco alla cultura professionale, la quale sembra carente su due aspetti principali: a) la definizione degli obiettivi, b) l’apprendimento tramite errori e sperimentazioni.

Partiamo dagli obiettivi. Non parlo di quelli generici (es. “vogliamo aumentare i visitatori del sito”) che praticamente non servono a nulla. Mi riferisco a quelli concreti e misurabili, i quali dovrebbero essere la base indispensabile per poter orientare gli investimenti in modo consapevole. Alzi la mano chi sa rispondere alle domande: “Quanto vale un visitatore del mio sito?”, “Quale è il canale di comunicazione online che genera il ROI maggiore?”, “Quale area del mio sito genera più vendite?”. C’è poi la domanda delle domande che non bisogna mai smettere di fare/farsi: “Perché?”

“Perché sul sito c’è un’introduzione in Flash che dura due minuti?”. “Perché la pagina di destinazione delle campagne è la home page e non pagine specifiche in funzione del messaggio?”, “Perché se l’azienda promuove un conto corrente bancario, si è scelta la keyword ‘conto’ su Google?”. Ognuna di queste domande può ricevere risposte positive o negative. L’importante è che siano circostanziate, che siano espresse con valori numerici (se poi qualcuno mi dimostra – ma davvero – che le introduzioni in Flash migliorano l’esperienza di navigazione, gli pago una cena).

Frederick Marckini di iProspect ripete sempre: “Puoi ottenere solo ciò che puoi misurare”. Nulla di più vero, ma spesso (e soprattutto in Italia) la misurazione viene intesa come controllo, come esame, e non come informazione capace di dare vantaggio competitivo. Purtroppo, da noi prevale la logica dell’errore come macchia, come fallimento. E in Italia un fallimento, anche dal punto di vista formale, rimane un neo per tutta la vita.

Mi stupisce sempre parlando con i miei colleghi americani, il fatto che molti di loro raccontano dei loro insuccessi quasi con orgoglio specie se, da quel momento negativo, sono poi riusciti a creare qualcosa di migliore. Da quando esiste l’email, Esther Dyson usa mettere sotto la sua signature il motto “Spero di fare ogni giorno uno sbaglio diverso”. Dalle nostre parti invece, quando si chiede del proprio lavoro, la risposta classica è “Va tutto bene”, seguita normalmente da un overselling che talvolta risulta imbarazzante.

Tutto questo influisce sullo scarso uso degli analytics proprio perché non si sopporta di essere misurati, anzi, può essere pericoloso. Si, perché i rispettivi “capi” a loro volta giudicano gli sbagli, non gli insegnamenti che ne emergono.

“Come dici? Potremmo provare tre impostazioni diverse del sito e capire quale fa vendere di più? Hey ma questo significa che almeno due sono sbagliate! Sai, ho deciso io la web agency…”.

Mauro Lupi
Mauro Lupi Blog

Nota: Mauro Lupi è co-fondatore e presidente di Ad Maiora
Tutti gli interventi di M.L. sono disponibili a questo indirizzo

Roma – Google, il motore di ricerca più usato al mondo, da diversi anni sta facendo un vera corsa contro il tempo per lanciare quanti più servizi è possibile. Il fine è uno: entrare in strettissimo rapporto con tutti coloro che usano il web. Ma cosa significa questo?

Significa che Google vuol diventare una sorta di grande fratello, vuol creare una ragnatela di servizi per poter (in)seguire tutti gli utenti. A dimostrazione di questo possiamo prendere in esame ad esempio il cookie che crea Google sui nostri computer e che scade circa nel 2038!
Ci identifica dunque per molti anni ed è capace di tracciarci ogni giorno. Il controllo che ha raggiunto Google in questi ultimi anni è spaventoso. Basti pensare che se tra i risultati di Google non compari, allora è come se nel web tu non esistessi.

Alcuni studi dimostrano inoltre che gli unici veri risultati che contano sono quelli presenti nelle prime posizioni. Un utente infatti molto raramente scorre la lista dei risultati, preferisce piuttosto cambiare le keywords per la ricerca.

Google grazie al solo servizio di motore di ricerca è già in grado di dire quante persone sono interessate al terrorismo, da quale nazione provengono, a cosa sono interessati, cosa cercano e puo’ decidere le pagine da visualizzare durante la ricerca. In Cina ad esempio ha attuato dei filtri di censura molto capillari. Inoltre con il servizio GMail gestisce e memorizza un’altra grandissima mole di informazioni. Un utente crede che la posta gli appartenga, in realtà Google ha spesso affermato di avere il diritto di salvare le nostre email anche quando noi decidiamo di cancellarle. Ce le nasconde, ma i contenuti restano sui suoi server.

I servizi segreti americani hanno più volte fatto pressione per accedere a tali informazioni, Google ha sempre detto di aver conservato la sua indipendenza, ma di questo chiaramente non possiamo esserne certi.

Comunicare attraverso i servizi di Google puo’ essere dunque un pericolo. Gli interessi economici che si celano dietro sono enormi. A fronte di ciò si è iniziato a sviluppare un motore di ricerca europeo. Il controllo è un’arma, e Google controlla! Il servizio forse più pericoloso che offre è Google Analytics.

Grazie a questo servizio, un utente che non usa Google, ma che naviga semplicemente nel web, viene comunque intercettato e tracciato lungo tutti i siti che ospitano tale servizio.

Ha dunque esteso il suo raggio di azione su un area molto più vasta, quasi capillare. Purtroppo molti webmaster implementano nelle loro pagine i codici di Google, siano essi Analytics o AdSense. Con l’uso di Google Maps poi riesce a capire anche gli interessi geografici che un utente ha. Che altro dire? Che il suo crawler in questo momento sta leggendo questo articolo e lo sta per salvare nella sua enorme cache.

Molti utenti dunque a fronte di ciò si sono organizzati ed hanno deciso di combattere questo fenomeno che George Orwell descrive bene nel libro 1984, di cui è stato anche girato un bellissimo film. Nei propri file hosts si reindirizzano gli IP di Google alla propria macchina e si blocca nel browser la possibilità di salvare cookie provenienti dai domini google.

Un libro che credo sia interessante leggere per poter approfondire questo discorso è The dark side of Google , un libro con licenza copyleft scritto dai ragazzi di ippolita.net .

NeCoSi
GeekPlace

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Pubblicato il
13 feb 2007
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