Nei secoli scorsi l’obiettivo era selezionare quel che si doveva ricordare: scrittura, stampa, fotografia, erano mezzi per imprimere e tramandare dati significativi, che potessero documentare il fluire della storia e delle storie personali. L’avvento del digitale, il disseminarsi della capacità di elaborare dati, trasferiscono in ogni oggetto la memoria di frammenti di vite umane. Il problema della selezione della memoria non si pone più: la memoria è la condizione di default, l’oblio, invece, un diritto da conquistare .
Questi i presupposti che muovono il quadro tracciato dal docente di Harvard Viktor Mayer-Schonberger in ” Useful void. The Art of Forgetting in the Age of Ubiquitous Computing “. Segnalato da Ars , l’articolo di Mayer-Schonberger avanza una proposta tanto lapalissiana quanto interessante: convertire le macchine da strumenti di immagazzinamento indiscriminato a strumenti di memorizzazione temporizzata e selettiva .
Il senso storico è sempre stato influenzato dalla possibilità tecnica di memorizzare, archiviare e organizzare il passato. Una possibilità che gli strumenti dei secoli scorsi consentivano di mettere in atto in situazioni eccezionali, mediate da professionisti . Il progressivo incastonarsi del digitale negli oggetti, la capacità di immagazzinare sempre più dati in spazi sempre minori, la comparsa di questi dati in rete e la possibilità di accedervi per trarne informazione, hanno cambiato radicalmente la dimensione del fluire del tempo. Dai database delle intenzioni dei netizen riposti negli archivi dei motori di ricerca allo sciamare della folla catturato da milioni di telecamere a circuito chiuso , dai preziosi dati prelevati da stato e mercato ai backup personali di ogni versione di qualsiasi documento, ammassare dati è poco costoso economicamente e cognitivamente.
È proprio questa memoria per default , a servizio della società della sorveglianza e della mercificazione della sorveglianza, ad atrofizzare l’individuo consapevole in un regime di timorata autocensura. Lo sguardo di un panopticon digitale, dalla memoria di ferro, può annichilire l’uomo nel suo relazionarsi e nel suo partecipare alla società civile: sul capo del privato cittadino pende la minaccia di venire incatenato a quella che Rodotà ha definito “gogna elettronica” (differente, per contro, la situazione del personaggio pubblico ).
Rispetto al semplice “diritto ad essere lasciato solo”, la natura della privacy è mutata : investe il futuro, un futuro su cui si proietta una reputazione composta di frammenti , spesso sospesi dal contesto in cui sono stati raccolti. Ma, osserva Mayer-Schonberger, gli istituti giuridici sembrano non essere sufficienti a tutelare il diritto dei cittadini a non essere preceduti da profili e classificazioni: non sanno aderire all’evolvere delle tecnologie, peccano di eccessiva generalizzazione, favoriscono, con il loro lassismo, l’interesse dei pochi.
Bandite le soluzioni a pagamento volte a garantirsi personalmente il diritto all’oblio, Mayer-Schonberger avanza una possibile soluzione: porre la tecnologia al servizio della legge, una legge che ripristini l’oblio per default , tornando a delegare alla società il dovere di selezionare ciò che merita di essere ricordato.
I metadati già agiscono per conto dell’industria: i sistemi DRM già identificano i file e delimitano le possibilità di agire su di essi, le macchine fotografiche associano informazioni ad ogni scatto, non si fa che mormorare dell’imminente avvento del Web semantico . Basterebbe introdurre fra i metadati delle istruzioni che pongano un limite alla data retention , capaci di cancellare automaticamente le tracce del passato . Naturalmente sarebbe concesso al privato cittadino di operare sui propri dati, consentendogli di decidere di consegnare alla storia ciò che ritiene degno. In questo modo oblio e memoria sarebbero bilanciati a misura d’uomo, i dati verrebbero selezionati dall’individuo in base al valore che attribuisce loro.
Fermo restando il valore delle iniziative per la conservazione della cultura digitale, che rischia di dissolversi nell’effimero dei bit; fermo restando il rischio di riscrittura della storia, qualora la memoria risultasse sfumare in una accumulazione dei dati poco ragionata o troppo selettiva, Mayer-Schonberger avverte l’esigenza di tornare ad una dimensione meno industriale e più umana della conservazione del’informazione. Del resto, la storia, ma anche i dati stessi, dovrebbero porsi al servizio della vita, nella misura in cui possono proiettarsi sul futuro, consentendo di vivere in maniera critica il presente.
Gaia Bottà