Videogiochi, la violenza è troppo facile

Videogiochi, la violenza è troppo facile

di Gilberto Mondi - Il dibattito sull'argomento non solo è trito ma è anche ridicolo oltre ogni limite. Eppure nelle denunce irrazionali e nelle richieste di censura alberga un terrore che, in parte, è condivisibile. E forse risolvibile
di Gilberto Mondi - Il dibattito sull'argomento non solo è trito ma è anche ridicolo oltre ogni limite. Eppure nelle denunce irrazionali e nelle richieste di censura alberga un terrore che, in parte, è condivisibile. E forse risolvibile

I media generalisti oggi conoscono Internet e la tecnologia meglio di ieri. E così anche la classe politica. Parliamo di piccoli passi, passetti, che però disegnano un po’ meglio l’immaginario dei più e che fanno sperare in un futuro di maggiore comprensione verso la più grande rivoluzione dopo quella industriale. Stupisce, quindi, che il dibattito sui videogiochi, invece, proceda in senso inverso: più passa il tempo, più se ne parla, più rasenta il ridicolo.

È di queste ore la notizia che la commissione censura britannica intende appellarsi contro la decisione di un tribunale di consentire la commercializzazione del titolo più chiacchierato del momento, vale a dire Manhunt 2 . Titolo che è già stato ritoccato per evitare le forche caudine della censura e che in molti altri paesi, non in tutti, circola liberamente.

In Italia, non contenti della figuraccia che media e istituzioni rimediarono all’epoca dello sbarco di un altro gioco mediocre dal profilo ossianico, Rule of Rose , anche Manhunt 2 ha conquistato la ribalta grazie alle dichiarazioni paradossali, le denunce e le richieste di censura. Ridicolo, certo, eppure qualcosa su cui riflettere c’è.

Chiunque abbia mai preso in mano Manhunt 2 avrà notato non solo che si tratta di un gioco non particolarmente originale, ma anche di un game in cui efferate uccisioni si svolgono in un contesto che media e politica generalmente non considerano, ma che è invece utilissimo. Serve a capire che, chi gioca, non sta pensando di uccidere il fratellino: ha invece incarnato uno spregiudicato personaggio del game che vive un vita laterale, un corridoio esistenziale che lui, il giocatore, non imboccherà mai, e che non fa parte del suo quotidiano.

dal videogame Eppure.
Qualche anno fa vincendo le resistenze della madre regalai a mio nipote Dino Crisis , giochetto che lucrava sui dinosauri nell’epoca post-“mondo perduto”, in cui il sauro terrorizzante è una buona scusa per correre, scappare o sparare all’impazzata. Da adulto consapevole, o così credevo, ho iniziato a giocare insieme a mio nipote, salvo dover smettere per l’eccesso di ansia che mi procurava l’ambientazione. Palpitazioni. Lui sembrava felice, ero io quello sconvolto. Dopo qualche tempo il gioco se l’è dimenticato. Lui, io no.

Dino Crisis, e centinaia di titoli che lo hanno preceduto e seguito, è uno di quei giochi che vengono definiti violenti . Il che è, in sé, innegabile: lo scopo del videogame è far sopravvivere il proprio personaggio e per farlo non c’è altra via, o quasi, che sparare all’impazzata, inscenando scontri drammatici con sauropodi di varia natura. Checché ne dicano le associazioni dei genitori, spesso più preoccupate di apparire sui giornali che di approfondire certi temi, non esistono però studi scientifici che colleghino in modo credibile l’utilizzo di videogame violenti a comportamenti violenti, violenti davvero, nella vita reale. Questo può non significare molto, ma di certo vuol dire che il rapporto causa-effetto, se c’è, è molto ben nascosto.

Ma se il genitore, o lo zio, può ancora tentare di offrire qualcosa di più ad un bimbo che voglia invece passare i pomeriggi a fraggare zombie, rubare automobili o far fuori spacciatori, è anche tempo di chiedersi cosa passi nella mente degli sviluppatori.

dal videogame Quando si pianifica un omicidio freddo e ansiogeno in Manhunt 2, o si prefigurano furti d’auto e sparatorie in Grand Theft Auto, non si sta realizzando un’opera dell’ingegno, si stanno sommando gli zeri e gli uno delle vendite sperando di moltiplicarli il più possibile, cercando mercato nel modo più facile, ricorrendo ai mezzi più banali per ottenere attenzione. Individuare stimoli più alti è più faticoso, richiede un più elevato tasso di creatività. Non solo: vendere un gioco che stimola la fantasia e aiuta a crescere è molto più complicato del vendere scariche di adrenalina a 69 euro l’una.

L’orrore, il brutto, in quanto stupefacente per natura.. vende. Forse è giunto il momento che chi nega che un videogame pensato per giovani e giovanissimi debba avere anche un valore educativo, ci ripensi. Questo renderebbe più facile al parentado sostituire con stimoli vitali le brutture tecnologiche con cui vengono bombardati i più piccoli. Non diventano piccoli killer, forse, ma di certo rischiano di percepire il mondo più buio e nero di quanto non sia.

Gilberto Mondi

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Pubblicato il
18 dic 2007
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