Si è conclusa la vicenda legale di Gregory Kopiloff, il famoso “ladro di identità” che ha usato, anzi abusato di celebri reti di file sharing per collezionare account, informazioni personali e finanziarie per riutilizzarle poi per il proprio tornaconto. Kopiloff, che si era già dichiarato colpevole di frode e furto aggravato di informazioni lo scorso novembre, dovrà ora scontare più di quattro anni nelle prigioni federali degli Stati Uniti.
Il giudice distrettuale di Seattle James Robart, che ha emesso la sentenza di condanna, ha definito il trentacinquenne Kopiloff “un bandito del mondo virtuale”, rigettando le eccezioni mosse dal difensore dell’uomo per una condanna più mite. Bisogna dare l’esempio, ha detto il giudice, e “questo genere di attività non deve essere tollerato”.
La condanna di Kopiloff rappresenta una novità nell’ecosistema legale degli States , visto che fino ad ora erano stati presi in considerazione solo “pirati” di musica, software o audiovisivi, attivi sulle reti di P2P, e mai la giustizia era stata interessata da un furto di identità a mezzo file sharing.
Piuttosto che limitarsi a scaricare MP3 e DivX, Kopiloff ha frugato nelle cartelle condivise di oltre 50 vittime alla ricerca di dichiarazioni dei redditi, pratiche per borse di studio, ricevute di credito e altro ancora, provocando nel complesso circa 70mila dollari di danni agli ignari condivisori.
L’avvocato Kathryn Warma ha definito l’operato di Kopiloff “una forma particolarmente rude di furto di identità, con Kopiloff intento a invadere la sacralità delle case delle persone per rubare le informazioni più personali dai loro computer”. Non sono infine serviti a mitigare la pena dell’uomo l’ammissione di colpevolezza e le sue scuse formali per i danni e la confusione provocati, né hanno sortito effetti le giustificazioni fornite dall’avvocato difensore Jennifer Wellman, secondo la cui tesi Kopiloff avrebbe usato la refurtiva per alimentare le sue dipendenze dalla droga e dal gioco d’azzardo.
Vero è che il caso rappresenta l’ennesima occasione, dopo la clamorosa distribuzione involontaria di dati sensibili di proprietà delle industrie farmaceutiche di quasi un anno fa, di mettere in evidenza il comportamento poco accorto degli utenti che usano abitualmente o saltuariamente le piattaforme di file sharing. Un’attività che può essere anche sicura, adottando le giuste precauzioni , ma che ha risultati evidentemente devastanti per la privacy e la sicurezza delle informazioni se a “giocare col fuoco” sono persone inconsapevoli di quel che fanno.
Alfonso Maruccia