Sulla recente Sentenza con la quale la Corte di Giustizia dell’unione Europea nel novembre dello scorso anno ha dichiarato l’illegittimità delle norme italiane che impongono l’apposizione del contrassegno SIAE sui supporti contenenti opere dell’ingegno, si è ormai scritto molto su queste pagine ed altrove. C’è, tuttavia, un aspetto non ancora affrontato.
La Corte di Cassazione nella Sentenza commentata da Daniele Minotti ha chiarito senza troppi giri di parole che la decisione della Corte di Giustizia rende inopponibili le citate disposizioni di legge sia in sede penale che civile con l’ovvia conseguenza che non apporre il bollino, oggi, non è reato e che nessuno – SIAE compresa – può esigere, in forza di tali disposizioni di legge, che un privato apponga il contrassegno su supporti contenenti opere audiovisive, immagini o software.
La SIAE, nonostante il lapalissiano tenore della decisione dei giudici di Strasburgo, continua imperterrita ad esigere l’adempimento di tale obbligo ed ad ammonire circa le conseguenze sanzionatorie del suo mancato assolvimento.
Quale sia il presupposto giuridico di tale convincimento non è dato sapere.
È, in ogni caso, un dato di fatto che negli ultimi anni la Società Italiana Autori ed Editori abbia incassato milioni di euro attraverso la distribuzione dei propri contrassegni, in forza di un insieme di disposizioni di legge il cui processo di produzione normativa è stato dichiarato illegittimo dai Giudici di Strasburgo.
La SIAE, dunque, non poteva esigere da editori e distributori di contenuti protetti da diritto d’autore l’adempimento dell’obbligo di apposizione del famigerato contrassegno.
Che quanto accaduto sia avvenuto in forza di un “errore” del Governo Italiano – rectius dei Governi in carica all’atto delle diverse importanti modifiche della disciplina in tema di apposizione del contrassegno – e non direttamente della SIAE, cambia poco le cose.
Chi ha pagato centinaia di migliaia di euro ha, comunque, versato un importo che avrebbe potuto risparmiare in quanto non dovuto ed ha, pertanto, oggi diritto a ripeterlo almeno in tutte quelle ipotesi nelle quali la decisione della Corte di Giustizia dello scorso novembre trova applicazione, ovvero ogni qualvolta l’obbligo di apposizione del contrassegno sia entrato nell’ordinamento per effetto di una disposizione di legge entrata in vigore successivamente al 1983, data di entrata in vigore della prima direttiva europea interpretata dai Giudici di Strasburgo.
I soldi – tanti – sono stati versati alla SIAE che, pertanto, dovrebbe restituirli.
Se poi, quest’ultima, possa o meno rivalersi, in tutto o in parte, sull’Erario è questione che poco interessa ai lettori di questo giornale e che, probabilmente, verrà decisa nelle stanze dei bottoni.
Il diritto, sfortunatamente, non è una scienza esatta e, dunque, tutto è sempre opinabile.
L’esperienza, tuttavia, insegna che in ipotesi analoghe la giurisprudenza ha riconosciuto il diritto alla ripetizione delle somme versate da parte di chi vi aveva provveduto in forza di una disposizione di legge successivamente ritenuta in contrasto con l’Ordinamento comunitario dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Una delle più note vicende di questo tipo è certamente costituita da quella relativa alla tassa di concessione governativa per l’iscrizione delle società del registro delle imprese: la disposizione italiana che prevedeva il versamento di tale tassa venne dichiarata illegittima da una decisione della Corte di Giustizia e l’Erario fu condannato, in centinaia di giudizi, a restituire agli imprenditori quanto versato in forza della citata previsione.
Cosa accadrà questa volta?