L’agenzia Customs and Border Protection (CBP) – asset del più vasto bureau del DSH – può anche giustificarsi con motivazioni di sicurezza nazionale, ma la verità è che la ben nota pratica del sequestro preventivo della componentistica hi-tech agli americani in rientro dall’estero è inutile per la suddetta sicurezza e pericolosa per l’idea che trasmette di una privacy da assoggettare sempre e comunque agli occhiuti controllori di stato.
È quanto hanno espresso nella giornata di ieri le organizzazioni pro-diritti civili nell’ audizione al Senato USA , tenuta dal “Sottocomitato sulla Costituzione, i Diritti Civili e i Diritti di Proprietà” e avente per oggetto i poteri apparentemente illimitati dei funzionari preposti al controllo dei cittadini di ritorno negli USA, autorizzati a sequestrare, esaminare e ritenere smartphone, portatili, palmari e quant’altro senza la benché minima garanzia sul trattamento e la restituzione del maltolto ai legittimi proprietari.
Un potere illimitato confermato due mesi fa dalla Corte di Appello del Nono Circuito, secondo la cui sentenza gli ufficiali della CBP non hanno bisogno nemmeno di un “legittimo sospetto” per sequestrare il materiale, scaricarne i contenuti su supporti e sistemi diversi e passare al setaccio informazioni sensibili, siano esse di rilevanza personale o aziendale/industriale .
Un potere che la Electronic Frontier Foundation e la Association of Corporate Travel Executives considerano eccessivo, minaccioso, lesivo della privacy e in definitiva dell’intero sistema economico degli Stati Uniti . Le due organizzazioni hanno chiesto alla Corte di Appello di tornare sui propri passi e ribaltare la sentenza sulla legittimità di una condotta che a loro dire non ha fondamento giuridico o fattuale.
“La nostra opinione è che essenzialmente nel mondo di oggi ti porti in giro l’ufficio dentro i dispositivi elettronici come cellulari, laptop o BlackBerry” ha osservato il direttore esecutivo di ACTA Susan Gurley prima di testimoniare presso il Senato. In tempi precedenti al trionfo del digitale per perquisire un ufficio ci voleva un mandato, ha continuato Gurley, e la differenza è che adesso tale autorizzazione scritta del giudice non sembra sia più considerata necessaria .
Gli ha fatto eco Peter Swire, professore di legge presso la Ohio State University che ha servito per due anni come consigliere sulla privacy per la presidenza Clinton, e nel cui giudizio aprire una valigia non è esattamente lo stesso che violare la sacralità di un laptop personale o aziendale e fare una copia bit per bit di tutto il contenuto eventualmente presente.
Al Sottocomitato, Swire ha detto che l’attuale modalità di azione del CBP ricorda le fallimentari politiche sulla privacy degli anni ’90 . “La policy del governo viola le pratiche di buona sicurezza” ha dichiarato il professore prima ancora di apparire davanti al parlamento, dal momento che “richiede le password e le chiavi di cifratura, che alle persone si insegna di non rivelare mai. Il governo vìola la privacy, inibisce la libertà di parola e compromette i segreti industriali”.
Ma c’è anche chi, come Nathan Sales, professore di legge presso la George Mason University ascoltato dai parlamentari assieme agli altri testimoni, sostiene la legittimità dei controlli del CBP. Tanto più che, fa notare l’accademico, a lamentarsi della faccenda sono stati anche 11 pedofili schedati e condannati. Ci vorrebbero piuttosto regole precise sulla gestione e la memorizzazione delle informazioni , dice Sales, oltre che adeguate garanzie sulla distruzione e la discrezionalità di accesso per quanto riguarda i dati dei viaggiatori “normali” su cui non esiste alcun sospetto.
Alfonso Maruccia