La macchina propagandistica di Pechino macina eventi e blogger, tritura realtà e netizen e risputa versioni ufficiali mentre i cittadini cinesi infiammano palazzi e appiccano dibattiti. Hanno sviluppato tattiche e strategie per sfuggire alla censura e per fare in modo che la propria testimonianza scavalchi la grande muraglia digitale.
Una ragazzina è morta in una regione del sudovest della Cina: le forze dell’ordine hanno archiviato il caso come suicidio, i media ufficiali hanno taciuto. Ma i cittadini della provincia di Guizhou erano convinti che la realtà si discostasse dalla versione offerta dalle autorità: avevano ragione di credere che il figlio di un membro delle forze dell’ordine locali avesse partecipato al rapimento e all’uccisione della giovane. Sono divampati incendi e proteste. Decine di migliaia di persone si sono riversate nelle strade della città, si sono scontrate con le forze dell’ordine, si sono scagliate contro le istituzioni.
La reazione di Pechino? La riapertura del caso della morte della ragazzina per “mantenere l’armonia sociale e la stabilità”, la citazione delle proteste sui media ufficiali, proteste attribuite alla “insoddisfazione” per il dipanarsi delle indagini, e 200 arresti fra i dimostranti. Tentativi di insabbiare la vicenda, suggeriscono molti media occidentali.
Se le autorità locali possono contare sulla complicità dei motori di ricerca nel rendere inaccessibili le fonti che operano su scala globale, impensieriscono le testimonianze e i documenti che i netizen della Repubblica Popolare stanno riversando in rete. Si tratta di video postati sulle piattaforme di file sharing, si tratta di post sui blog, si tratta di accese discussioni sui forum capaci di instillare il dubbio nella fiducia che i netizen cinesi ripongono nelle autorità.
C’è chi ha fatto dei test per sondare la reattività degli ingranaggi censori di Pechino. Il Wall Street Journal racconta che San Xiao, un reporter locale, ha pensato di rivolgersi alla rete per dare spazio a quello che non avrebbe potuto pubblicare sul quotidiano per cui lavora. Ha raccolto informazioni e ha dato voce ai manifestanti, ha confezionato il post e l’ha provocatoriamente titolato “vediamo quanto tempo passerà prima che questo post venga censurato e rimosso”. Le sue aspettative non sono rimaste disattese: oggi il post non è più disponibile online , così come le pagine nelle quali veniva ripreso e citato.
Ma gli esperimenti dei netizen cinesi non si esauriscono in rese alla censura. C’è chi ha sviluppato delle strategie per sfuggire all’occhio di Pechino : catturano i propri pensieri in screenshot, utilizzano tecniche crittografiche per cifrare le frasi e renderle irriconoscibili a sguardi non informati, ma anche tool online in grado di ribaltare frasi e di distribuirle in verticale, di invertire l’ordine delle lettere.
C’è inoltre chi compone stringhe di codice per distogliere l’attenzione dei bot di stato dal proprio spazio sul web, ma anche chi inganna la censura con l’immediatezza dei cinguettii su Twitter: è il caso di Zuola, giovane ritenuto il primo citizen journalist cinese. Oltre al claudicante blog ospitato su server esteri, attraverso il quale documenta l’evolvere del paese in cui vive, Zuola dispensa aggiornamenti via Twitter, racconta in diretta della propria fuga dalle autorità di Pechino, sulle sue tracce da giorni .
I cittadini cinesi della rete si industriano per partecipare al dibattito globale, per documentare al resto del mondo la situazione in cui versa la il loro paese. Ma le autorità locali potrebbero agire con mano ancor più pesante: Facebook sembra essere fuori gioco, la pagina principale di Tor è inaccessibile agli utenti cinesi.
Gaia Bottà
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