Cinquant’anni di compensi non bastano a mantenere i performer, artisti fantasiosi nell’interpretare brani altrui ma non abbastanza fortunati da saper comporre brani originali attraverso i quali lasciare in eredità ai nipoti decenni di rendite assicurate. Ora anche i performer hanno diritto di viziare i nipotini: lo sostiene la Commissione Europea, che torna a proporre l’estensione del diritto d’autore sulle interpretazioni.
“Mi impegno a concentrare tutti gli sforzi necessari a assicurare che i performer possano godere di introiti dignitosi”: queste le parole proferite dal commissario Charlie McCreevy. Parole a cui è seguita la formalizzazione di una proposta già ventilata nei mesi scorsi: poiché “l’Europa considera di valore il loro operato” si chiede che i diritti sulle performance registrate dagli interpreti venga esteso dai 50 anni attuali a 95 anni.
È questa una misura che consentirebbe di tutelare quella frotta di interpreti che si sono esibiti tra gli anni 50 e gli anni 60, che si stanno vedendo scivolare di mano quelle rade compensazioni che ora traggono dal proprio lavoro. Consentirebbe loro di arrotondare la pensione che si sono guadagnati con un impiego spesso alternativo alla passione per la musica: le loro esibizioni continueranno a fruttargli tra i 150 e i 2000 euro l’anno , stima la Commissione, frutteranno quando verranno trasmesse alla radio o alla tv, quando allieteranno le serate degli appassionati di balere e revival party, quando verranno acquistate dai nostalgici fuori e dentro la rete.
Ma esistono altri motivi per cui la proposta dovrebbe passare, spiegano dalla Commissione: qualora i termini dei diritti dei performer venissero estesi, ne trarrebbero vantaggio anche i discografici , “permetterà loro di adattarsi al rapido cambiamento dell’ecosistema di business caratterizzato da un rapido declino nelle vendite di beni fisici (calato del 30 per cento negli ultimi cinque anni) e dalla lenta crescita degli introiti derivati dalle vendite online”.
La Commissione ammette che esistono altri punti di vista: cita il Gowers Report stilato negli scorsi anni nel Regno Unito e ricorda che alle autorità britanniche veniva sconsigliata l’estensione della durata dei diritti degli artisti in quanto sarebbe stata una mossa poco conveniente per tutti. La Commissione non ci sta a considerare la questione dal punto di vista meramente economico: “Il copyright – chiosa – rappresenta un diritto morale del performer che deve garantirgli la possibilità di controllare l’utilizzo del proprio lavoro e di guadagnare di che vivere dalla propria performance, perlomeno finché è in vita”.
Se gli artisti e l’ industria della musica plaudono alla proposta, la ventata di polemiche scatenate da quello che molti considerano un atteggiamento oltremodo caritatevole si è già abbattuta su McCreevy. Si sono pronunciate le associazioni a tutela dei diritti dei consumatori e dei netizen, hanno tentato di responsabilizzare e coinvolgere la società civile nello schierarsi contro l’estensione. Si sono mossi anche esimi docenti universitari per scoraggiare una proposta che, sostiene il professor Kretschmer, se venisse approvata rischierebbe di “danneggiare seriamente la reputazione della Commissione”, una proposta che “è una spettacolare manifestazione di prostrazione nei confronti di un singolo gruppo di interesse: l’industria multinazionale della musica”, che con gli artisti stipula i contratti e ne determina la qualità della vita prima e dopo la pensione.
Ma nonostante questi sommovimenti, nonostante ci siano dei Commissari che si sono apertamente opposti al provvedimento, il Financial Times paventa che la proposta potrà trovare accoglimento a Bruxelles: sullo sfondo, un compromesso per bilanciare i provvedimenti che potrebbero assestare uno scossone alla struttura del business delle società di raccolta europee.
Gaia Bottà
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