Era il 1996 quando sulle pagine di questo giornale scrivevo di una causa che stava travolgendo un provider statunitense in Germania: si parlava di immissione in rete di contenuti di pornografia infantile, e la tesi di un giudice tedesco, che fu lì lì per prevalere, era che il provider fosse responsabile dell’attività online dei propri utenti. Già allora mi sembrava fantascienza che si potesse chiedere ad un operatore Internet di assumersi l’onere di quanto combinavano online i propri abbonati, ma da quel momento in poi abbiamo documentato in Italia e nel resto del mondo il palesarsi di questa identica pretesa, centinaia di volte. La tentazione di rendere responsabile chi fornisce il mezzo anziché colpire esclusivamente chi ne abusa è infatti fortissima dinanzi alla gravità di certi fatti. Eppure è sbagliata e pericolosa. Potrebbe sembrare scontato a molti di coloro che abitano la rete ma, vista la moltiplicazione delle denunce, di scontato evidentemente non c’è nulla e non è quindi possibile liquidare la vicenda con una battuta.
Non è un caso se, nel leggere della decisione della Procura di Milano di iscrivere nel registro degli indagati alcuni dirigenti di Google, mi sia ricordato di quella faccenda in Germania, così antica ma così prossima: i rappresentanti legali di un operatore Internet , Google, sono stati accusati di corresponsabilità nella diffamazione e violazione della privacy ai danni di un ragazzo down. Come molti ricorderanno, tutto è nato dalla pubblicazione su Google Video quasi due anni fa di un video talmente abusivo da suscitare una fortissima emozione in tutto il Paese. Se ne uscì con una denuncia dell’associazione Vividown e una indagine: a due anni di distanza, il risultato è che sono indagati tutti i possibili responsabili di Google video dell’epoca.
Volendo sintetizzare con l’accetta come fa ad esempio Cnet potremmo dire che “Google deve affrontare accuse di rilievo penale perché sul sito italiano dell’azienda è stato postato il video di un ragazzo con la sindrome di Down finito nel mirino dei propri compagni di classe in una scuola di Torino”. Sintesi crudele, forse, ma la cronaca giudiziaria è davvero tutta qui.
Tra la pubblicazione del video su Google e la messa in stato d’accusa dei dirigenti statunitensi non esiste alcuna correlazione palese, almeno per per chi apprezza le comunità di video sharing. Ma siamo in Italia: una normativa obsoleta associata ad una giurisprudenza schizoide possono tutto, persino spingere sulla strada sbagliata. I magistrati hanno deciso che quei dirigenti Google vadano processati in quanto “hanno consentito la pubblicazione” di quel video; non è un caso che a supportare questa visione delle cose sia stata presa una sentenza del Tribunale di Napoli che risale a più di dieci anni fa, all’8 agosto del 1997, secondo cui “la rete Internet, quale sistema internazionale di interrelazione tra piccole e grandi reti telematiche, è equiparabile ad un organo di stampa” e, dunque, “il titolare di un nome di dominio Internet ha gli obblighi del proprietario di un organo di comunicazione” .
La difesa di Google non è bastata: affermare che l’azienda non acconsente a nulla ma semplicemente mette a disposizione uno strumento, ricordare che un controllo viene effettuato dalla community e sottolineare che non appena venuta a conoscenza del video Google lo ha rimosso sono tutte tesi che non hanno convinto la Procura.
Contro Google giocherà in fase dibattimentale anche la stranota legge sull’editoria, la 62 del 2001, perché, come scrisse il Tribunale di Milano nel 2002, “Alla luce della complessiva normativa in tema di pubblicazioni diffuse sulla rete Internet, risulta ormai acquisito all’ordinamento giuridico il principio della totale assimilazione della pubblicazione cartacea a quella diffusa in via elettronica, secondo quanto stabilito esplicitamente dall’articolo 1 della legge 62/2001” . Un articolo 1 contro cui, come ricorderà qualche lettore di questo giornale, su queste pagine tutti insieme si creò un gran baccano : modificato, quell’articolo 1 tende a rispuntare sempre più spesso nei tribunali della penisola.
Ma sono speculazioni: al di là delle tesi che porterà l’accusa al processo, qualora giungesse a sentenza una visione di questo tipo, e una corresponsabilità venisse accertata, le conseguenze per moltissime diverse attività Internet e non certo solo Google Video sarebbero pesantissime. Vorrebbe dire che in Italia, al contrario di quanto accade nel resto dell’Occidente, i contenuti generati dagli utenti non potrebbero più trovare spazio in grandi aggregatori online, significherebbe che questi verrebbero considerati alla stregua di veri e propri giornali, tenuti a selezionare tutto ciò che venisse pubblicato.
È vero però, come molti stanno dicendo in queste ore, che a togliere le castagne dal fuoco potrebbe giungere l’attuazione della celeberrima direttiva europea sul commercio elettronico 2000/31/CE, quella che esplicitamente rende gli internet service provider, alla cui stregua Google viene oggi parificato, irresponsabili per l’attività degli utenti, e responsabili esclusivamente qualora non agiscano dietro mandato dell’autorità giudiziaria o se, pur sapendo che un’attività illegale viene condotta, decidessero di non segnalare la cosa a chi di dovere. Chiunque abbia mai avuto a che fare con tribunali e procedimenti legali sa però che di certo non c’è mai nulla, anche dinanzi all’evidenza più palese.
Se le cose andranno come speriamo, e il processo a Google finirà in un nulla di fatto, il problema dei contenuti disseminati in rete rimane all’ordine del giorno per chi tenta di arginare la diffusione dei video di bullismo. Lo ricorda Franco Abruzzo , che evidenzia il disegno di legge già presentato dalla senatrice Maria Burani Procaccini (Forza Italia), che punta a vietare la diffusione su Internet di video di quel tipo. Con un divieto che vada questa volta a colpire chi quei video diffonde e non invece chi ha il merito di aver fornito un mezzo utilizzato lecitamente da milioni di utenti, che grazie a quel mezzo comunicano in modo del tutto nuovo, danno vita a nuove forme di socialità, selezionano talenti dando anche forma ad un nuovo immaginario.
È giunto senz’altro il momento che in ciascuna delle normative italiane che parlano di divieti di pubblicazione, e che si affannino a delimitare l’uso di Internet, sia integrato finalmente in modo esplicito il principio di irresponsabilità dei prestatori dei servizi. Bastano due righe semplici e pochissimo inchiostro per consentire agli abitanti della rete di vivere Internet con un po’ più di serenità.
Paolo De Andreis Roma – La conclusione delle indagini preliminari del caso Google-Vividown, già agli onori della cronaca all’apertura dell’inchiesta, nel novembre del 2006, porta all’attenzione questa volta dei media mainstream , e di quella piccola parte del grande pubblico che si interessa ai problemi connessi alla diffusione dell’uso delle ICT, la questione della regolamentazione dell’utilizzazione della rete. Per anni si è ritenuto che non fosse in nessun modo possibile regolamentare l’uso di Internet, che tutti potessero produrre e mettere online contenuti senza nessuna forma di controllo. I sostenitori di questa tesi, asserivano che la struttura stessa, diffusa e decentrata, della rete impedisse ogni forma di controllo e che anzi la diffusione delle tecnologie dell’informazione avrebbe inevitabilmente e globalmente diffuso l’idea e la pratica dei diritti universali dell’individuo. La smentita all’universalità di questa teoria si è avuta dalla Cina, in cui un governo fondamentalmente illiberale convive con la controllata diffusione di contenuti attraverso la rete; l’esempio cinese ha anzi dimostrato come un governo possa efficacemente e pervasivamente controllare il comportamento dei suoi cittadini, in una maniera impensabile prima dell’avvento dell’ICT.
D’altra parte, proprio il caso della Cina, mostra che ogni forma di filtraggio preventivo può trasformarsi in una inaccettabile forma di censura. Almeno nelle società occidentali, quindi, si contrappongono due diversi interessi, due diverse libertà individuali alle quali non credo nessuno sia disposto in linea di principio a rinunciare: la libertà di espressione ed il diritto al controllo sulla diffusione di informazioni su di noi.
Nei media tradizionali le due esigenze sono contemperate dall’attribuzione di responsabilità all’autore e all’editore del contenuto: se qualcuno in qualche modo pubblica in un media tradizionale qualcosa che io ritengo diffamatorio non solo io mi posso rivalere sull’autore, ma anche sull’editore. È questo principio semplicemente trasponibile all’enorme mole di UGC ( user generated content )?
Per quello che riguarda la responsabilità dell’autore, credo che nessuno metta in dubbio la possibilità di trasposizione, sia di principio sia di fatto: anche se l’utente medio percepisce l’uso di Internet come anonimizzante, e come anomino spesso si comporta, in realtà le tracce digitali che inevitabilmente si lasciano nell’uso della rete, permettono di risalire, se necessario, con ragionevole certezza all’autore di qualsiasi contenuto, anche il breve commento lasciato in un blog, lasciato in Internet. È quello che è avvenuto nel caso in esame: i quattro studenti autori del fatto, della sua ripresa e della sua diffusione sono stati individuati e sono ora affidati a un’associazione torinese che opera nel campo della disabilità (se a ottobre dimostreranno ai giudici di aver compreso la gravità di ciò che hanno fatto, si estinguerà il procedimento penale intentato nei loro confronti).
C’è un qualche genere di entità paragonabile all’editore in questo caso? La responsabilità che la legge, ed il buon senso, attribuiscono all’editore si fonda sull’idea che un editore possa conoscere tutto ciò che decide di pubblicare; è, quindi, la mera possibilità di conoscenza e non la conoscenza effettiva che rende giuridicamente e moralmente responsabile un editore. Ma nel caso di ISP che ospitano un numero di contributi umanamente inconoscibile si può ancora parlare di responsabilità? Ad un ISP si possono davvero attribuire una responsabilità o degli obblighi analoghi a quelli di un editore? O forse si può può dire che la cloud di Google, la nuovola composta dalle centinaia di migliaia di server sparsi per il mondo e connessi tra di coloro che sono Google, “conosca” tutto ciò che contiene nello stesso senso in cui un essere umano conosce ciò che ricorda?
I giudici di Milano che dovranno prendere una decisione hanno un compito, importante, che farebbe tremare i polsi a qualsiasi filosofo, perché la loro decisione presupporrà inevitabilmente una particolare concezione di rete, che potrebbe anche modificare, vista la particolare natura dell’ICT, lo sviluppo degli ISP in tutto il mondo occidentale.
Andrea Rossetti
Professore associato dell’Università di Milano Bicocca