I taxi di Milano, la privacy e tutto quanto

I taxi di Milano, la privacy e tutto quanto

di Giovanni Ziccardi - L'approccio italiano ha dato vita a un problema enorme: tutto è più importante del diritto alla privacy, e ci stiamo avvicinando alla società sorvegliata perfetta. I taxi con cam sono un esempio emblematico
di Giovanni Ziccardi - L'approccio italiano ha dato vita a un problema enorme: tutto è più importante del diritto alla privacy, e ci stiamo avvicinando alla società sorvegliata perfetta. I taxi con cam sono un esempio emblematico

Il Comune di Milano ha finanziato, con un milione di euro, l’installazione, sui taxi locali, di telecamere che riprendono i clienti e l’abitacolo. La stessa cosa è già stata fatta a Firenze e, presto, sarà portata a compimento a Roma.
Grazie anche ad un contributo parziale: il tassista riceve dal Comune 1.000 euro e deve aggiungerne più o meno altri 1.400 per completare l’installazione del sistema e pagare il canone annuo del servizio di gestione dei dati.
Il vicesindaco di Milano, De Corato, ha dichiarato al Corriere della Sera (pagina 27 del 30 luglio 2008): “Siamo orgogliosi di essere la città più videosorvegliata d’Italia. Le telecamere mettono in crisi i delinquenti”.
Sempre a Milano, si legge sul Corriere , vi sono 900 telecamere attive in città; l’ATM, dal canto suo, ha annunciato l’obiettivo di avere 2.500 telecamere funzionanti nelle zone afferenti la metropolitana entro la fine del 2009.
Ad onor del vero, il quotidiano scrive anche che la proposta in stile orwelliano “video-taxi 19-84” ha avuto poco “appeal” tra i tassisti milanesi: sono rimasti nella cassa del Comune, inutilizzati, 800 mila euro che però, con ogni probabilità, soddisferanno appetiti simili manifestati dagli edicolanti cittadini. Anche loro hanno sollevato, infatti, l’esigenza di installare telecamere: si spera, per il loro business, che non inquadrino zone dell’edicola che espongono film o riviste particolari.

Gli annunci degli esponenti politici milanesi sono l’occasione per una riflessione sulla normativa in tema di privacy italiana a dieci anni, più o meno, dall’entrata in vigore della legge.
Le parole provenienti dagli amministratori milanesi, unitamente a ciò che è successo in Italia in questi ultimi dieci anni, ci suggeriscono di procedere ad un’analisi al contrario: non ragionare, in particolare, su quali valori e comportamenti siano tutelati oggi dalla normativa sulla privacy in Italia ma, al contrario, su quali siano le eccezioni/limitazioni che rendono la legge italiana per molti settori, “trasparente”, come se non ci fosse e, soprattutto, su quali siano i poteri che progressivamente si sono “chiamati fuori”.

Quando fu introdotta in Italia, per la prima volta, nel 1996/1997 una normativa sulla privacy, ci fu immediatamente una sorta di “fuggi fuggi” generale di gran parte dei settori della nostra società; organi legislativi, giudiziari, di governo e autorità indipendenti fecero finta, in molti casi, di non vedere, oppure concessero proroghe su proroghe sperando in una “conversione sulla via di Damasco” di molte amministrazioni geneticamente refrattarie al concetto di privacy.
L’effetto delle proroghe, soprattutto nel settore pubblico, fu devastante: si percepì il valore privacy come superfluo, poco importante, “tanto gli adempimenti venivano sempre prorogati”…

In ordine temporale, i primi a chiamarsi fuori furono i giornalisti e tutto il mondo dei media e della stampa, in nome di un “diritto di cronaca” sacrosanto ma che andrebbe letto e inteso, in Italia, in maniera molto più nobile del puro pettegolezzo/morbosità/”incontinenza” che i nostri organi di stampa hanno spesso manifestato. In pratica, l’idea di un codice di autoregolamentazione/deontologico/disciplinare da concordarsi col Garante e, addirittura, incorporato come allegato nella normativa vigente si è rivelato, in pratica, essere semplicemente un elenco di eccezioni e di zone franche concesse alla stampa.

I secondi a chiamarsi fuori furono quasi tutti gli apparati del settore pubblico, con motivazioni tra le più varie: la prevalenza del diritto all’accesso sul diritto alla privacy, il problema di costi e mancanza di risorse (“non abbiamo i soldi per la carta igienica, figuratevi se ci preoccupiamo della privacy nei nostri uffici” ha comunicato un magistrato a un rappresentante del Garante durante un convegno cui ho assistito), le già dette continue proroghe, di sei mesi in sei mesi, che hanno reso nulla la percezione d’importanza di questi valori.

Contestualmente, soprattutto dopo l’attentato di Madrid, vi è stata, anche in Italia, l’emergenza sicurezza e terrorismo, che ha portato alla custodia a tempo indeterminato dei file di log e delle informazioni sulle comunicazioni (saltando a piè pari i limiti che erano previsti dalla legge sulla privacy e causando anche uno spiacevole “incidente diplomatico” in tema di data retention) alla disciplina degli Internet cafè e delle postazioni Internet aperte al pubblico.

Poi si è continuato con la recente polemica sulla raccolta di impronte biometriche dei bambini. Tralasciando questioni politiche e di merito, si noti che la biometria era sempre stata considerata, anche nelle decisioni del Garante, un argomento molto delicato, quasi una extrema ratio: in alcune occasioni il Garante ha vietato la raccolta di impronte digitali perché ritenuta un metodo non proporzionato, in punto di invasività, per gli scopi della raccolta e dell’obiettivo da raggiungere.
Si è poi passati alla sorveglianza/pattuglia nelle città (che, in pochi lo scrivono, ma comporta anche grossi problemi di privacy) e, ora, alle videocamere sui taxi.

A seguito di tali episodi, anche il semplice osservatore può notare come la legge sulla privacy italiana, in questi anni, sia diventata “trasparente” per tanti attori e settori della nostra società; ciò porta al fatto che sono molte di più le eccezioni (ovvero le situazioni che, a seguito di un giudizio di importanza elaborato, di solito, dal mondo politico, sono considerate preminenti rispetto al diritto alla privacy) rispetto alle aree protette dall’ombrello della legge.

Le motivazioni sono state, in questi dieci anni, sempre le stesse: “è più importante la sicurezza della privacy”, “è più importante il diritto di cronaca della privacy”, “le telecamere tengono lontani i delinquenti” e simili.
Non vogliamo discutere, nel merito, questo modo di ragionare, perché è molto soggettivo, legato alla formazione culturale, alle opinioni politiche e alle esperienze personali di ognuno di noi.

Vorremmo però far notare che un approccio di questo tipo, in Italia, ha dato vita a un problema enorme: tutto sembra essere più importante del diritto alla privacy, e ci stiamo avvicinando alla società sorvegliata perfetta.

Da ogni parte ci informano che siamo “in emergenza”: emergenza terrorismo, emergenza immigrazione e clandestini, emergenza Rom, emergenza intercettazioni, emergenza sicurezza, emergenza tagli alle spese. L’emergenza che può giustificare un annullamento del diritto alla privacy del singolo riguarda, ormai, ogni ambito: niente più privacy in città, in negozio, in metropolitana, in taxi, sul posto di lavoro e così via.

Pensiamo però che anche in (asserita) emergenza sia sempre necessario valutare con cura il bilanciamento tra esigenze di sicurezza e esigenze di privacy, tenendo a mente che il rapporto tra questi due valori non è, come molti vogliono far credere, o bianco o nero, ma può manifestare zone di grigio che possono creare un quadro che sia rispettoso della privacy e contemporaneamente benefico per la sicurezza.

Un primo passo può essere una spiegazione chiara, al cittadino, delle modalità di gestione di tutti i dati trattati e dei limiti che, comunque, devono essere rispettati.

Se il potere politico, sia a livello locale sia a livello centrale, decide legittimamente di prendere un provvedimento lesivo della privacy ma volto a garantire più sicurezza, il cittadino non ha molto margine di azione se non impugnare il provvedimento, ove possibile, o, in occasione di nuove elezioni, non votare più quel soggetto. Ha però il diritto di conoscere nei dettagli, chiaramente e senza dubbi, come i suoi dati siano trattati.

Il Comune decide di mettere le telecamere sui taxi, o nelle edicole? Bene. Che fine fanno le registrazioni delle telecamere sui taxi? Chi le gestisce? Con che misure di sicurezza? È stato fatto un test di sicurezza sulle banche dati a protezione da accessi abusivi esterni? L’informativa è chiara? Posso mantenere riservato (non ripreso dalla telecamera) l’indirizzo di destinazione che comunico al tassista, perché magari corrisponde a una struttura sanitaria o a un sexy shop? Posso chiedere al guidatore di spegnere la telecamera, dopo avergli dato opportune garanzie che non sono delinquente, dal momento che devo fare una telefonata importante? Se sono un VIP, magari in compagnia? La telecamera come sarà posizionata? Mobile o fissa? Sul volto o sulle gambe? I dati che mi riguardano verranno distrutti a fine corsa, una volta che ho pagato e il tassista è incolume?

Occorre una maggiore coscienza del cittadino, in una vita sociale che sta diventando completamente controllata, su che destinazione e “vita” abbiano i dati. Siamo in un periodo critico per la privacy in Italia e, leggendo le recenti dichiarazioni del Garante, lo stesso sembra mantenersi molto cauto e diplomatico, quasi rassegnato, a volte con consigli più da bonario parroco di provincia che da agguerrito difensore dei diritti alla privacy dei cittadini: fornisce suggerimenti, annuncia analisi, esterna timidi consigli, ma non sembra in grado di arginare, come se avesse armi spuntate rispetto all’emergenza in corso, questo attacco sistematico a ogni aspetto della privacy.
Non ci sembra di esagerare, per chiudere il discorso, nel dire che oggi la legge sulla privacy sia più un’eccezione (che va a colpire soprattutto i deboli, contro cui è molto semplice fare la voce grossa) che una regola, tanti sono i settori che si sono “chiamati fuori” per i motivi più vari.

Risulta però molto difficile ragionare pacatamente e fare proposte se, veramente “siamo tutti contenti di vivere nella città più sorvegliata” e se anche il Garante si è ormai rassegnato a vedere il diritto alla privacy posto dal mondo politico, nella classifica di importanza dei diritti tutelati dalla nostra società, in una posizione inferiore a tutti gli altri.

Biometria, sorveglianza e videocamere, stampa e media, file di log e controllo del traffico, grandi provider sono già “sfuggiti” o stanno sfuggendo alla normativa: presto avremo la raccolta delle impronte di tutti i detenuti, la banca dati del DNA (prima il DNA dei colpevoli di crimini di sangue poi, ad abundantiam, di tutti gli altri), le telecamere in dotazione non solo a tassisti, edicolanti, negozianti e aziende di trasporti ma a chiunque ne faccia richiesta, non riusciremo più a distinguere il nobile diritto di cronaca dalla pura morbosità del giornalista (anche quest’ultima, oggi, tutelata dalla normativa sulla privacy in Italia grazie a un sistema di eccezioni e riserve che il “potere forte” della stampa ha ottenuto già da diversi anni) e cercheremo presto, come un ago in un pagliaio, un taxi col bollino “camera-free” o “privacy oriented”, un angolo non coperto dalle telecamere per scambiarci un bacio che non sia trasmesso in mondovisione con la nostra compagna o un’edicola dove comprare ciò che più ci piace senza che qualcuno ci osservi.

Leggo, intanto, che negli Stati Uniti d’America, a New York, vi è il progetto di dare alle Forze dell’Ordine delle armi con installata, sotto alla canna, una telecamera che filmi tutto ciò che succede, soprattutto in caso di scontri a fuoco. L’agente non ha la possibilità di modificare, cancellare o rimuovere in alcun modo la registrazione cifrata di oltre un’ora di video e audio, che si attiva non appena l’agente estrae la pistola e la punta contro un soggetto o una situazione.
Se siete a New York e un poliziotto vi punta una pistola addosso, ricordatevi quindi di dire “cheese”; se, invece, a Milano avete la fortuna di “salire” su uno dei (pochi) video-taxi 19-84, state attenti a cosa fate e dite.
Consiglio di ascoltare, e mi perdonino le signore che leggono, la prima strofa di una bella canzone dei Baustelle , “L’aeroplano”, contenuta nell’ultimo album, traccia n. 5.
Ascoltata la strofa, in questi giorni la battuta è davvero facile: resta un bel video!

Giovanni Ziccardi

Giovanni Ziccardi, Avvocato, è Professore di “Informatica giuridica” e “Informatica giuridica avanzata” presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano e siede nel Board of Directors di Ip Justice.
Il suo sito è all’indirizzo http://www.ziccardi.org , il suo Blog è consultabile all’indirizzo http://ziccardi.typepad.com

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Pubblicato il
1 ago 2008
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