La rete è animata da dinamiche differenti da quelle che sorreggono i media tradizionali. Ma nel DDL che dovrebbe disciplinare le intercettazioni è contenuta una disposizione che impone a blogger e gestori di siti web di comportarsi come direttori di testate giornalistiche , di pubblicare rettifiche qualora incappino in errori o diano voce a parole lesive dell’altrui reputazione. La rete più matura di quanto si creda: non c’è bisogno di regolamentare per legge quello che online già avviene spontaneamente, e con più puntualità rispetto ai media tradizionali. Soprattutto quando nel contempo il governo punta a tracciare un netto distinguo tra professionisti dell’informazione e chi opera per passione. Ma c’è dell’altro: le rigide disposizioni con cui il DDL guarda alla privacy faranno stagnare le indagini. Ad approfondire con Punto Informatico è Giuseppe Corasaniti , cittadino della rete e magistrato, presidente dal 2005 al 2007 del Comitato consultivo permanente per il diritto d’autore presso il Ministero dei beni e le attività culturali, l’unico autore in Italia ad aver approfondito l’istituto della rettifica, con una monografia e con una voce sulla Enciclopedia Giuridica Treccani.
PI: Come si è applicata finora la disciplina della rettifica in rete?
GC: L’applicazione della rettifica “formale” cioè in base alla legge sulla stampa del 1948 è stata pressoché nulla, comprensibilmente, come vedremo, non sono mancati invece richiami al codice dei dati personali con ricorsi al Garante in base all’art. 7 comma 3 del codice dei dati personali nel caso di dati inesatti, infatti l’interessato ha sempre diritto di ottenere l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati. Peraltro anche nel codice deontologico in materia di trattamenti dei dati personali per i giornalisti si prevede uno spontaneo dovere (appunto del giornalista cioè di chi tratta professionalmente informazioni): ” Il giornalista corregge senza ritardo errori e inesattezze, anche in conformità al dovere di rettifica nei casi e nei modi stabiliti dalla legge “. Bisogna osservare che perfino il Garante della Privacy nell’applicazione della norma è stato molto cauto e si è limitato ad interventi nel caso di diffusione di dati personali inesatti o trattati senza consenso (come numeri di telefono o indirizzi email pubblicati sui siti web). Più decisa, come ricordiamo, è stata l’applicazione del codice nel caso di trattamenti riservati da parte dei giornalisti (appunto hanno fatto scuola proprio i provvedimenti del Garante in materia di pubblicazione di testi di intercettazioni, ma sul punto non sono nemmeno mancate critiche da parte della dottrina, che ha intravisto una potenziale violazione dell’ art. 21 della Costituzione per cui la stampa, e cioè l’informazione, non può essere oggetto di autorizzazioni o censure.
PI: Poniamo l’esempio di un quotidiano che operi sia su carta sia in rete: che differenze ci sono nell’assoluzione dell’obbligo?
GC: È ovvio che il problema è quello della data di pubblicazione, ma è un problema apparente perché nella rettifica quello che conta è il periodo che intercorre tra la richiesta dell’interessato. In base allo “storico” articolo 8 della legge del 1948 sulla stampa, modificata nel 1981 ” il direttore o, comunque, il responsabile ” della pubblicazione è espressamente tenuto a fare inserire gratuitamente nel quotidiano o nel periodico o nell’agenzia di stampa dichiarazioni o rettifiche di soggetti “di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale”. La norma prevede che, per i quotidiani, le dichiarazioni o le rettifiche siano pubblicate non oltre due giorni da quello in cui è avvenuta la richiesta, in testa di pagina e collocate nella stessa pagina del giornale che ha riportato la notizia cui si riferiscono. Invece, per i periodici, non oltre il secondo numero successivo alla settimana in cui è pervenuta la richiesta, nella stessa pagina che ha riportato la notizia cui si riferisce. Non solo, ma la norma è anche molto precisa sul piano grafico “editoriale”, infatti rettifiche o dichiarazioni devono sempre fare riferimento allo scritto che le ha determinate e soprattutto devono essere pubblicate nella loro interezza, purché contenute entro il limite di trenta righe, con le medesime caratteristiche tipografiche, per la parte che si riferisce direttamente alle affermazioni contestate. Ovvio che in rete cambia tutto proprio sul piano della periodicità, ma proprio in rete si potrebbe, se proprio si vuole fare uso della rettifica, stabilire un termine decorrente dalla ricezione di una email, anziché di una lettera raccomandata. In ogni caso la violazione dell’obbligo è sanzionata con una sanzione amministrativa pecuniaria (anche se non è infrequente la richiesta di provvedimenti d’urgenza da parte dell’interessato in sede civile per ottenere la pubblicazione della smentita): da ormai un decennio è la vera sanzione, oltre al risarcimento del danno, che poi comunque bisogna provare in concreto.
PI: È a conoscenza di casi in cui blogger o gestori di siti che non operino in maniera professionale con l’informazione si siano trovati costretti a pubblicare delle rettifiche? Come hanno agito?
GC: Normalmente, per ottenere la pubblicazione di dichiarazioni o la cancellazione di espressioni sconvenienti o direttamente offensive, è sempre bastato il richiamo alla legge sui dati personali e alla diffamazione, e le rettifiche in fondo avvengono spontaneamente (e senza bisogno di alcuna legge) molto più sul web che non nella stampa e nella televisione, che puramente e semplicemente – invece – ignorano l’obbligo di rettifica. In fondo è paradossale: il web viene punito con una applicazione “creativa” proprio quando quasi tutti con una semplice mail rimuovono spontaneamente i contenuti diffamatori, mentre i giornalisti che alla rettifica sarebbero tenuti normalmente, se proprio costretti pubblicano le rettifiche nelle lettere al direttore e magari fanno un bel commentino satirico per dimostrare che alla fine avevano ragione aggiungendo al danno anche la beffa. Il risultato? Pochi chiedono il risarcimento del danno morale, che pure servirebbe nei casi più gravi, e preferiscono la querela per diffamazione. E così gli uffici giudiziari sono intasati.
Ed attenzione alle semplificazioni. Internet non è “eguale” alla stampa. Vorrei ricordare una importantissima sentenza della Corte di Cassazione ( Cass. Sez. 5 penale Sentenza 25 luglio 2008 n. 31392 ) che ha affermato senza mezzi termini come “La diffamazione tramite Internet costituisce certamente un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi del comma III dell’art. 595 cp, in quanto commessa con altro (rispetto alla stampa) mezzo di pubblicità”. In realtà peraltro, poiché è certamente possibile, attraverso i normali strumenti di dotazione di un qualsiasi personal computer, procedere alla stampa della “pagina web”, il giornale telematico sembrerebbe quasi costituire un tertium genus tra la stampa e, appunto, gli altri mezzi di pubblicità. Cosa certa è, comunque, che, essendo ormai Internet un (potente) mezzo di diffusione di notizie, immagini e idee (almeno quanto la stampa, la radio e la televisione), anche – evidentemente – attraverso di esso si estrinseca quel diritto di esprimere le proprie opinioni, diritto che costituisce uno dei cardini di una democrazia matura e che, per tale ragione, figura in posizione centrale nella vigente Carta costituzionale. I diritti di cronaca e di critica, in altre parole, discendono direttamente – e senza bisogno di mediazione alcuna – dall’art 21 Cost. e non sono riservati solo ai giornalisti o a chi fa informazione professionalmente, ma fanno riferimento all’individuo uti civis. Chiunque, pertanto, e con qualsiasi mezzo (anche tramite Internet), può riferire fatti e manifestare opinioni e chiunque – nei limiti dell’esercizio di tale diritto (limiti, da anni, messi a punto dalla giurisprudenza) – può “produrre” critica e cronaca. PI: Come potrebbe declinarsi su un sito Internet il dovere di rettificare dando la stessa rilevanza alla notizia? Se è possibile immaginare come un blog o un sito possano assolvere all’obbligo, come si dovrebbero comportare coloro che gestiscono aggregatori di notizie che operano in maniera automatica, servizi come Google News?
GC: Ovviamente c’è da sperare in un emendamento che restringa l’obbligo di rettifica, appunto, alle testate giornalistiche via web. Emendamento che sarebbe in un certo senso coerente con la disciplina della stampa e della radiotelevisione, altrimenti proprio qui verrebbero fuori rischi di incostituzionalità: peraltro la rettifica non può essere rivolta ad opinioni critiche come proprio la Cassazione ha ricordato nel 2008. Sul piano grafico il problema è in fondo molto semplice: basta un trafiletto con la stessa qualità del pezzo da rettificare ma, ripeto, il vero problema è quello dell’estensione a tutti i siti “informatici” che la legge pone senza mezzi termini con un pressapochismo tecnologico al quale ormai siamo abituati.
PI: Anche i motori di ricerca, che operano da gatekeeper, rischiano di dover mettere mano agli algoritmi per restituire, ad esempio fra le stringhe abbinate ai link dei risultati, la dichiarazione o la rettifica?
GC: Direi proprio di no, anche oggi mica si chiede la rettifica sulle rassegne stampa. Ovviamente il problema c’è e l’ambigua formulazione del disegno di legge potrebbe moltiplicarlo. In ogni caso il principio è chiaro se si guarda alle normative su stampa e televisione: ad essere tenuto alla rettifica è chi dirige il mezzo che ha curato la pubblicazione, non quello che lo ha semplicemente citato.
PI: In particolare, nel DDL si specifica che dichiarazioni o rettifiche debbano essere pubblicate in modo che sussista ” la stessa modalità di accesso al sito “: è un’esagerazione immaginare che ciò possa significare che tutti coloro che linkano la pagina che conteneva la frase lesiva della reputazione siano costretti a linkare allo stesso modo la rettifica? A quanti “gradi di separazione”, a quanti link concatenati potrebbe estendersi quest’obbligo?
GC: Purtroppo la frase è infelice, immagino voglia dire che occorrerebbe assicurare in un certo senso la stessa rilevanza grafica e la stessa impaginazione, ma siccome si tratta di un testo di legge meglio sarebbe una definizione più chiara, e soprattutto la limitazione alle testate giornalistiche via web che una impaginazione formale ce l’hanno già. Immagino che l’espressione voglia dire che deve essere assicurata pari dignità informativa e stesso spazio soprattutto rispetto alle affermazioni da rettificare. Ma qui si apre un grande problema, perché in rete l’informazione è “trasversale” cioè appunto gioca tutti i suoi spazi in modo ipertestuale, con link appunto, mentre nella stampa e nella TV è facile individuare i “bersagli” della rettifica, e cioè articoli o programmi cui si pretende di integrare lo spazio informativo con criteri ben precisi. In rete mi pare difficile una concatenazione successiva ad altri soggetti estranei allo spazio nel quale sono contenute le affermazioni che si vuole “rettificare”. A meno che, come appunto sembra opportuno, si limiti la portata della normativa ai giornali, e cioè alle testate giornalistiche via web.
PI: Come comunicare la richiesta di rettifica qualora il netizen non metta a disposizione sul proprio sito alcun riferimento?
GC: Il problema è serio,semmai andrebbe verificato il titolare del sito o del servizio, ma ripeto da un lato appare indispensabile almeno una interpretazione restrittiva che sembrerebbe pur sempre possibile ai giornali, telegiornali e agenzie online. In ogni caso in rete quando si trattano informazioni in modo continuativo assicurare un riferimento di corrispondenza agli interlocutori diventa un principio di civiltà. E questo, che ci piaccia o no, è un fatto di buon senso e di netiquette.
PI: La notizia o l’affermazione oggetto di rettifica, specie se di particolare rilevanza, potrebbe disseminarsi di link in link, di medium in medium: è pensabile per la persona offesa contattare tutti per tutelare i propri diritti?
GC: È già molto difficile per la stampa, e per le trasmissioni televisive che citano stampati e viceversa, e quindi figuriamoci via web. Peraltro quando i giornalisti citano in modo spassoso “fonti Internet” (per loro spesso non c’è distinzione fra fonti affidabili e no…tutto fa brodo) sono pessimi professionisti perché dovrebbero verificare sempre e comunque l’attendibilità delle fonti e citarle espressamente. Se non lo fanno o se informano in modo approssimativo o sbagliato ne rispondono, e giustamente la rete non ha colpe per la loro incultura digitale.
PI: Nel DDL, art. 15 c.1 alla lettera e si fa riferimento al ” direttore responsabile del giornale o del periodico, il responsabile della trasmissione radiofonica, televisiva o delle trasmissioni informatiche o telematiche “. Chi sono il ” direttore ” e il ” responsabile delle trasmissioni informatiche o telematiche “?
GC: Secondo buon senso è il direttore della testata (formale) via web, laddove sia previsto e individuabile. Ma è evidente che qui il legislatore non ha molto ben presente come funziona la rete e pensa che ci sia sempre un “direttore” anche quando non può esserci, e non ha proprio idea che possono esserci spazi condivisi: come rettificare le pagine wiki? Ai posteri l’ardua sentenza, a noi il terzo mondo digitale che si avvicina sempre di più. PI: Se il DDL Cassinelli e il DDL che regola le intercettazioni dovessero entrambi diventare leggi, c’è possibilità che riescano a convivere?
GC: È una domanda difficile: così come sono stati concepiti e così come sono stati articolati, speriamo proprio di no. Ripeto: è fondamentale distinguere tra attività professionali e attività non professionali. Il cuore del problema è proprio questo, e la sentenza della Cassazione del 2008 pone anche problemi molto seri di tutela costituzionale, che peraltro già la Corte Suprema degli Stati Uniti affrontò nel ben noto caso ACLU-RENO del 1997.
PI: Crede che sia possibile bilanciare la posizione dei cittadini della rete che non operano in maniera professionale con il diritto del cittadino a non subire lesioni della propria reputazione? Suggerimenti?
GC: Incentivare in ogni modo l’autodisciplina, promuovere le mediazioni anziché i conflitti e non diffidare della rete, che dimostra alla fine nei suoi operatori e nei suoi servizi professionali molta più maturità e capacità di autoregolarsi di quanto si creda, o si lasci credere.
PI: Il DDL sulle intercettazioni precede in ordine di tempo il DDL Cassinelli. È possibile pensare che la disposizione sull’obbligo di rettifica per i “siti informatici” sia frutto di un mancato coordinamento, piuttosto che di una scarsa attenzione nutrita dal legislatore nei confronti della tecnologia? Oppure è lecito credere, come suggerisce qualcuno in rete, che il DDL sulle intercettazioni sia un’occasione per “far rientrare dalla finestra” delle regole che potrebbero spingere la rete all’autocensura con la minaccia di sanzioni, somministrate qualora non si adempisse all’obbligo di rettifica?
GC: Il legislatore esprime una società che ha qualche imbarazzo nel comprendere la tecnologia: sbagliare è umano, ma perseverare come si sta facendo in Italia è diabolico (e comunque gli errori sono equamente divisi tanto a destra quanto a sinistra, è un fatto generazionale e culturale). Confido solo nella Presidenza Obama per una svolta nel concepire e comprendere i problemi della rete: sarà una nuova era della speranza. E confido sui molti parlamentari di maggioranza e di opposizione che almeno sanno cosa è Internet, la usano e perciò non ne hanno paura. Il rischio purtroppo è evidente, e per chi si occupa dei difficili rapporti tra diritto e tecnologia ogni giorno porta la sua pena sotto forma di disegni di legge variopinti ed arroganti che vorrebbero disciplinare a tutti i costi – ed anche a costo di un deficit delle libertà civili – quello che invece può trovare una regolamentazione ampia in sede europea ed internazionale.
PI: La disposizione relativa alla rettifica non è che un tassello del complesso DDL che dovrebbe regolare la disciplina delle intercettazioni. Si vorrebbe introdurre una stringente tutela della privacy: in che modo influirà sul dipanarsi delle indagini?
GC: È qui che sta il vero dramma del disegno di legge, che unifica intercettazioni, acquisizione di dati di traffico e riprese visive. Le indagini sul cyber crime saranno di fatto abolite: esse hanno senso solo se si svolgono nell’immediatezza, con buona pace della nuova legge attuativa della Convenzione di Budapest del 2001 e degli impegni internazionali che ci siamo appena assunti di “tempestiva” cooperazione. E mi limito a questo perché gli effetti saranno ben peggiori. Se il testo resta così come è, sarà anche praticamente impossibile utilizzare dati di traffico in via d’urgenza per i magistrati, come nel caso delle rapine violente o violenze sessuali commesse da ignoti cioè di persone ancora non identificate. Servirebbe il consenso della persona offesa per acquisire i tabulati e analizzarli: va bene, si fa per dire, in caso di rapina del cellulare, ma se l’interessato viene trovato cadavere? E nelle frodi, per esempio, se l’interessato non sa neppure, per le complesse tecniche utilizzate, di essere stato truffato? C’è tutto il tempo per i criminali, cyber e non, di cambiare aria con calma finchè si ottengono le doverose autorizzazioni, e più in là godere i disonesti frutti dei propri crimini. Speriamo di no, mi auguro di no. L’ansia di privacy, a volte pompata dai media, quegli stessi media tradizionali come stampa e TV che poi la violano in mille modi evidenti e in mille momenti, oltre che il (consueto) sonno della ragione digitale, sta per partorire un mostro.
a cura di Gaia Bottà