La settimana è iniziata sotto tono, ma promette di entrare nel vivo entro venerdì: ormai la conclusione del processo a The Pirate Bay , e più precisamente ai quattro individui ritenuti dall’accusa i fondatori e gestori del sito, si avvicina, e dunque le parti in causa non risparmiano alcuna carta per tentare di convincere il giudice togato e i tre giudici popolari delle proprie ragioni . Difficile dire al momento chi la stia spuntando, anche se parrebbe che la strategia messa in atto da Peter Sunde (in arte BrokeP) e compagni stia dando i propri frutti.
Nella prima udienza della settimana, tenutasi martedì e dedicata ai testimoni dell’accusa, davanti alla corte sono sfilati tre due investigatori che si sono occupati dell’istruttoria del caso per conto dell’industria. Gli avvocati dei detentori dei diritti avevano preannunciato anche un terzo teste che, tuttavia, non hanno ritenuto far salire sul banco.
È toccato dunque solo a Magnus Mårtensson e Anders Nilsson illustrare il risultato delle loro ricerche: hanno mostrato alla Corte una serie di schermate salvate in precedenza , ma hanno dovuto ammettere – pressati dalla difesa – di non avere prove tangibili di aver utilizzato le risorse messe in campo da The Pirate Bay, né di avere la certezza che quanto hanno scaricato fosse protetto da diritto d’autore.
Proprio a tal riguardo, un’altra delle novità della settimana è costituita da un nuovo cambio nel capo di imputazione : se prima i quattro erano accusati di aver messo a disposizione degli utenti “un website con motore di ricerca, (…) un database contenente file torrent, (…) e un tracker”, fornendo cioè “tutti i componenti necessari agli utenti del servizio per condividere file”, ora l’accusa si potrebbe accontentare di dimostrare che la Baia ha fatto anche solo una di queste cose. È in quella parola tutti che risiede la difficoltà di dimostrare la colpevolezza degli accusati: rimuovendola , alla luce di quanto si è visto in aula fino a questo punto, i legali dell’accusa sperano di riuscire a dimostrare almeno in parte le proprie tesi e di ottenere una condanna. Conclusa la prima fase, mercoledì è stato il turno di nientepopodimenoché John Kennedy, ex-CEO di Universal Music Group e oggi a capo di IFPI (l’associazione che sostiene gli interessi delle major). Kennedy ha confermato di essere in aula per tenere fede al proprio mandato, vale a dire far rispettare e se possibile “migliorare” le leggi che tutelano il diritto d’autore, precisando che “la pirateria ha causato danni immensi all’industria della musica”. Pur ammettendo di avere una conoscenza limitata di BitTorrent, dei software utilizzati per la condivisione e del funzionamento di TPB, Kennedy ha definito la Baia come la sorgente numero uno della musica pirata nel mondo.
Per Kennedy, ogni download equivarrebbe ad un album acquistato in meno: le cifre starebbero a testimoniare l’impatto del file sharing, con i fatturati delle major calati da 27 miliardi di dollari nel 2001 ad appena 18 nel 2008. Dietro insistenza della difesa, il CEO di IFPI ha ammesso di non conoscere l’esatto impatto dei download legali di musica su queste cifre ma ha anche precisato che, tra un prodotto ceduto gratuitamente e uno in vendita, a suo giudizio il consumatore finale non avrebbe dubbi: sceglierebbe sempre quello gratis. Ma non per questo, a differenza che in passato, IFPI inizierà a trascinare in tribunale ogni singolo utente beccato ad utilizzare i servizi offerti da TPB.
A supporto delle sue teorie, Kennedy ha snocciolato sei diversi studi condotti da alcune università sull’impatto del file-sharing sulle vendite di musica: cinque di questi studi confermerebbero le sue tesi, uno soltanto proporrebbe la teoria che i download siano un vantaggio per l’industria musicale. La difesa ha chiesto di conoscere quanti di questi studi fossero stati commissionati da IFPI o dalle sue associate: Kennedy ha risposto di non saperlo.
Infine, capitolo Google. Secondo la difesa, che basa molta della sua strategia su questo punto, TPB non sarebbe altro che l’equivalente di Google sebbene ristretto ad un argomento specifico: perché dunque non fare causa anche a Google, visto che attraverso il suo motore di ricerca si possono individuare gli stessi file torrent? “Abbiamo discusso con Google di come prevenire la pirateria” ha spiegato Kennedy, che ha anche rivelato come BigG sia divenuta un partner importante in tal senso e che una task force apposita opererebbe a Londra per filtrare dai risultati del motore di ricerca i contenuti indesiderati. BigG, insomma, collabora: la Baia, no.
A quello di Kennedy è seguito l’intervento di Bertil Sandgren, rappresentante dell’industria cinematografica, che ha quantificato e giustificato i danni chiesti agli imputati, motivandoli con il calo delle vendite dei biglietti al cinema: un calcolo effettuato, ha spiegato , stimando – in base ai risultati al botteghino – la percentuale di download di un film su un totale presunto. Sandgren, pressato ancora una volta dalla difesa, non ha voluto tuttavia esprimersi sugli incassi record fatti registrare nel 2008 dalle sale svedesi .
Prima che la corte si aggiornasse, c’è stato ancora spazio per le testimonianze del CEO svedese della divisione locale di Universal Per Sundin, e del rappresentante della IFPI svedese Louis Werner. Quest’ultimo ha ribadito le cifre delle vendite in calo, tali da giustificare una richiesta di danni: i dati forniti in sede dibattimentale, tuttavia, secondo qualcuno sarebbero in contraddizione con quanto la stessa associazione aveva illustrato tempo addietro sul proprio sito. Le vendite negli ultimi anni, questa la ricostruzione dei blogger, non sarebbero affatto calate.
Seduta aggiornata, si riprenderà oggi stesso.
Luca Annunziata