Come già riportato da Punto Informatico quattro persone a diverso titolo in relazione con il sito Pirate Bay sono state condannate in Svezia ad un anno di carcere per aver agevolato la condivisione di files protetti da diritto d’autore. Quali sono i presupposti per la condanna e qual è la situazione invece in Italia?
Da quanto è dato apprendere dai media che hanno affrontato la vicenda sembra che i titolari del sito siano stati condannati perché hanno “promosso l’infrazione delle leggi sul diritto d’autore” e più in particolare per ” complicity in violation of copyright law “. In pratica i titolari del sito avrebbero agevolato la commissione dei reati di violazione del copyright.
Il semplice assunto sembra già difficilmente comprensibile. Se così fosse, infatti, ovvero se ci fosse stata una qualche forma di complicità, allora il Tribunale avrebbe dovuto condannare anche chi scarica: solo se la violazione del diritto d’autore da parte di terzi è accertata e gli autori del reato sono perseguiti allora i titolari di The Pirate Bay possono essere considerati responsabili di un reato in concorso. Altrimenti la complicità avviene rispetto a chi e che cosa?
L’istigazione di per sé, in pressoché tutti gli ordinamenti (e tranne per tipi di reato ben più gravi, quali i reati di terrorismo) generalmente non comporta sanzioni penali dirette quali ad esempio la reclusione, ma generalmente misure secondarie (come le misure di sicurezza).
Inoltre, come giustamente rilevato dall’avvocato Samuelson, difensore di Lundstrom, e portavoce degli altri condannati, vi deve essere un nesso di causalità tra l’azione consapevole di coloro che scaricano (e che non si capisce perché non siano stati a questo punto condannati anch’essi) e l’azione dei titolari del sito, nonché una consapevolezza da parte di quest’ultimi, perché altrimenti vedremmo addossati a soggetti una forma di responsabilità oggettiva che prescinde dagli ordinari criteri di imputabilità.
Per fare un esempio pratico dovremmo pensare che sia responsabile di concorso in omicidio colui il quale produce cacciaviti perché un cacciavite è stato usato da un soggetto assolutamente sconosciuto al produttore, per commettere un omicidio. La responsabilità quindi dei titolari del sito sembrerebbe essere stata una responsabilità di tipo “morale”. Orbene in Italia la responsabilità morale nella commissione di un reato si ha allorquando si fa sorgere o si rafforza l’altrui proposito criminoso (si pensi, ad esempio, a chi istiga un determinato soggetto a commettere un furto o, addirittura, al caso del “mandante” di un omicidio). In ogni caso però, come si diceva prima, ci deve essere un reato compiuto da qualcuno.
E allora sorge spontanea la domanda: è reato in sé scaricare musica protetta da diritto d’autore? La risposta è no, almeno in Italia. Nel nostro ordinamento il mero downloading di file protetti da diritto d’autore non si può considerare un reato ma un illecito amministrativo, mentre lo è in certi limiti l’uploading ovvero la condivisione: per questo c’è una sanzione penale, entro certi limiti oblazionabile, cioè convertibile in denaro. In particolare, chi scarica illecitamente file protetti dal diritto d’autore (utilizza, duplica o riproduce) per scopi personali può essere punito con la sanzione amministrativa pecuniaria di 154 euro. In realtà questa sanzione può essere ipotizzata solo se questa attività non concorre con quella di upload. Pene più dure (1.032 euro e pubblicazione in due giornali) sono previste nel caso di recidiva ( art. 174-ter comma 2).
La condivisione invece (o uploading), ovvero l’azione di “Chiunque mette a disposizione del pubblico, immettendola in un sistema di reti telematiche mediante connessioni di qualsiasi genere” anche solo una parte dell’opera protetta, per scopi estranei a quello di lucro è punito con una multa da 52 euro a 2.066 euro ( art. 171 lett. a-bis). Quindi, ancorchè con una sanzione modesta, quest’ultima ipotesi configura un reato. L’art. 171 comma 2 prevede in questo caso la possibilità di oblazione (pagamento pecuniario che estingue il reato), pagando un importo pecuniario pari alla metà del massimo edittale della pena (2.066 euro / 2) cui aggiungere le spese del procedimento.
Orbene in questa ultima ipotesi i titolari di The Pirate Bay potrebbero essere indicati come responsabili di un concorso morale in quanto avrebbero rafforzato l’intenzione criminosa di chi ha compiuto il reato di condivisione a scopo personale, rispondendo di un reato che prevede come sanzione al massimo 2066 euro di multa, e non certo la reclusione, come invece accaduto in Svezia.
In realtà in Italia (così come avvenuto a Stoccolma) si è provato (e si prova tuttora) nell’unico caso finora noto introdotto presso il Tribunale di Bergamo, a vedere nel comportamento di The Pirate Bay una violazione della legge sul diritto d’autore per scopi di lucro, fattispecie ben più grave e che invece è sanzionata anche con la reclusione. L’immissione in rete infatti di contenuti protetti dal diritto d’autore per scopi lucrativi (diciamo impropriamente commerciali), dopo l’entrata in vigore del plesso normativo noto volgarmente come Decreto Urbani del 2004, prevede la reclusione.
In pratica The Pirate Bay risponderebbe di concorso (a titolo lucrativo) del reato (non lucrativo) di chi condivide, che però (secondo la Procura di Bergamo ed evidentemente anche della Corte di Stoccolma) resterebbe ignoto, ma che a rigor di logica, e seguendo questa impostazione, dovrebbe a questo punto essere perseguito non per la condivisione ad uso personale ma per il più grave reato di condivisione a scopo di lucro.
Nel provvedimento del GIP di Bergamo del 1 agosto 2008, poi revocato ma per motivi di carattere essenzialmente procedurale infatti si legge che il reato ipotizzato per i titolari di The Pirate Bay (e per terzi ignoti) è quello “previsto e punito dagli articoli 110 c.p. e 171 – ter, comma 2, lettera a bis della Legge 22 aprile 1941 n. 633 in concorso tra loro e con altri attualmente ignoti, in violazione dell’articolo 16 della suddetta legge ed a fini di lucro, comunicavano al pubblico opere dell’ingegno protette dai diritto di autore, in particolare file musicali; documenti di testo; riproduzioni digitali di pubblicazioni a stampa; audiolibri; immagini; opere cinematografiche a televisive; programmi informatici…”. Quindi il titolo di reato per The Pirate Bay è concorso in proprio e con terzi ignoti nel reato lucrativo di violazione del diritto d’autore, punito appunto con la reclusione. Ma chi potrebbero essere questi terzi ignoti, se non gli utenti?
La conseguenza aberrante (ma logica) della sentenza di Stoccolma e dell’impostazione della Procura di Bergamo sarebbe quella di attribuire agli utenti che scaricano la stessa responsabilità di The Pirate Bay assoggettandoli alla reclusione e aggirando di fatto le norme che non prevedono sanzioni penali per chi scarica per uso personale.
Infatti l’ articolo 116 (cd. aberratio delicti ) del nostro codice penale, detto anche “concorso anomalo”, prevede che se uno dei partecipanti all’esecuzione di un reato commette un fatto diverso da quello realmente voluto (o un altro oltre quello voluto dai concorrenti) risponde anche di quest’altro reato, anche se più grave. L’articolo 116 c.p. stabilisce infatti che “qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua azione o omissione. Se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave”.
Quindi se io condivido un file protetto dal diritto d’autore e mi espongo alla sanzione della multa, automaticamente mi vedo “appioppare” il reato di comunicazione al pubblico a fini di lucro, che prevede appunto la sanzione della reclusione. Ovvero se un soggetto ha solo condiviso per scopo personale ma viene chiamato a rispondere in un processo in cui è presente anche The Pirate Bay (e ovviamente da ora in poi sarà sempre così) dovrà necessariamente rispondere anche del reato lucrativo del concorrente con sanzioni che pur diminuite prevedono comunque la reclusione, ovvero il carcere.
In entrambi i casi i giudici hanno “glissato” sulle conseguenze di questa impostazione che però appare l’unica possibile, forse per evitare prevedibili reazioni da parte dell’opinione pubblica. Si spera che nel futuro chi dovrà giudicare della questione si ponga questo “spinoso” problema.
Fulvio Sarzana di S.Ippolito
www.lidis.it