Il dipendente e la posta elettronica

Il dipendente e la posta elettronica

di Carlo e Fulvio Sarzana di S.Ippolito (www.lidis.it) - Il Ministro Brunetta è intervenuto per regolamentare l'uso di Internet sul posto di lavoro. Ma non è il primo: da anni le istituzioni oscillano tra incoraggiamento e vigilanza
di Carlo e Fulvio Sarzana di S.Ippolito (www.lidis.it) - Il Ministro Brunetta è intervenuto per regolamentare l'uso di Internet sul posto di lavoro. Ma non è il primo: da anni le istituzioni oscillano tra incoraggiamento e vigilanza

Il Ministro della funzione pubblica ha dunque diramato una Direttiva denominata “Utilizzo di internet ed ella casella di posta istituzionale sul luogo di lavoro”. La notizia di per sé non è nuova. Sono infatti almeno 5 anni che il Ministero della funzione pubblica e il “defunto” Ministero per l’innovazione e le tecnologie hanno assunto un atteggiamento ambivalente nei confronti dell’uso della posta elettronica nelle pubbliche amministrazioni che ricorda il famoso detto “bastone e carota”.

Da un lato infatti si auspicava (e si auspica) un utilizzo sempre più diffuso delle nuove tecnologie nel settore della PA, e particolarmente dell’uso della posta elettronica, con l’obiettivo anche di attivare per ogni dipendente una apposita casella. Tale obiettivo, già menzionato negli anni passati in documenti quali le “Linee guida per lo sviluppo della società dell’informazione nella legislatura”, del 2001, e richiamato dall’art. 24 comma 8 lettera e) della legge 16/1/2003 n.3 , nelle precedenti direttive è stato poi ribadito nella Direttiva del Ministro del 27/11/2003 avente come titolo “Impiego della posta elettronica nelle pubbliche amministrazioni”, per poi essere richiamato anche nella Direttiva Brunetta di questi giorni.

Dall’altro però si tende a penalizzare il dipendente che ecceda nell’uso di questo strumento. Basta leggere la Direttiva Brunetta, che usa termini assolutamente generici ma in qualche modo “insinuanti” per far capire che al di là dei richiami alle tutele del lavoratore e della privacy il dipendente che utilizzi Internet per scopi personali non sia in verità soggetto così gradito all’Amministrazione pubblica. Si fa infatti riferimento sia al codice di comportamento del Pubblico dipendente che avrebbe assunto rilevanza normativa sia a illeciti disciplinari e/o addirittura penali. Tra l’altro non si fa riferimento in alcun passo della direttiva al caso dei social network, ma il richiamo sembrerebbe abbastanza evidente.

Dal punto di vista della privacy, quasi a tranquillizzare gli allarmati dipendenti pubblici, Brunetta dunque cita le linee guida del Garante per posta elettronica e internet pubblicate Gazzetta Ufficiale n. 58 del 10 marzo 2007. Il provvedimento fornisce una serie di indicazioni generali secondo le quali compete innanzitutto ai datori di lavoro di informare con chiarezza e in modo dettagliato i lavoratori sulle modalità di utilizzo di Internet e della posta elettronica e sulla possibilità che vengano effettuati controlli. Il Garante vieta poi la lettura e la registrazione sistematica delle e-mail così come il monitoraggio sistematico delle pagine web visualizzate dal lavoratore, perché ciò realizzerebbe un controllo a distanza dell’attività lavorativa vietato dallo Statuto dei lavoratori. Viene inoltre indicata tutta una serie di misure tecnologiche e organizzative per prevenire la possibilità, prevista solo in casi limitatissimi, dell’analisi del contenuto della navigazione in Internet e dell’apertura di alcuni messaggi di posta elettronica contenenti dati necessari all’azienda. Il provvedimento raccomanda l’adozione da parte delle aziende di un disciplinare interno, definito coinvolgendo anche le rappresentanze sindacali, nel quale siano chiaramente indicate le regole per l’uso di Internet e della posta elettronica.

Ma ci sono delle vere e proprie norme che regolano l’uso della posta elettronica e la navigazione su Internet da parte sia dei dipendenti pubblici che di quelli privati?

Per quanto riguarda il campo pubblico, in realtà, esisteva una disposizione normativa relativa all’uso privato delle linee telefoniche d’ufficio, contenuta nel decreto del Ministro della Funzione Pubblica del 31/3/1994, con il quale fu adottato il Codice di comportamento dei dipendenti della P.A. ai sensi dell’art. 58 bis del D. Lg.vo n. 29 del 1993. Si trattava dell’art. 10 che, alla prima parte del comma 5, prevedeva che “salvo casi eccezionali dei quali informa il dirigente dell’ufficio, il dipendente non utilizza le linee telefoniche dell’ufficio per effettuare chiamate personali”.

La necessità di ampliare questa limitata facoltà di deroga collegata al requisito dell’eccezionalità ha indotto successivamente il Ministro della Funzione pubblica a rivedere l’impostazione iniziale dell’art. 10 e, infatti, il nuovo Codice di comportamento dei dipendenti pubblici di cui al decreto ministeriale del 28/11/2000 ha previsto al comma 3 dell’art. 10 che il dipendente “salvo casi d’urgenza, non utilizza le linee telefoniche dell’ufficio per esigenze personali”. Tale disposizione di carattere puramente amministrativo, a parte il riferimento alle sole apparecchiature telefoniche, non appare comunque tale da escludere, ad avviso dello scrivente, totalmente la responsabilità civile e penale nel caso di uso illecito delle linee telefoniche da parte del dipendente pubblico.

Per quanto riguarda ora l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale in materia, va detto che la dottrina penalistica è divisa in ordine alla definizione della natura giuridica della posta elettronica e alla possibilità dei dirigenti dell’ufficio di controllare l’uso che i dipendenti fanno, in genere, degli strumenti tecnologici posti a loro disposizione. La migliore dottrina ritiene che, almeno sino a quando il dipendente non acceda alla sua casella ed apra il messaggio di posta elettronica, il messaggio stesso debba considerarsi come “corrispondenza chiusa” e come tale tutelata ai sensi dell’ art. 616 c.p. . Questa tesi è stata sostenuta in giurisprudenza implicitamente da una decisione del T.A.R. Lazio, Sezione I ter, n. 9425 del 15/11/2001 in relazione ad una mailing-list in ambiente pubblico secondo cui “la corrispondenza trasmessa per via informatica o telematica, c.d. posta elettronica, deve essere tutelata alla stregua della corrispondenza epistolare o telefonica ed è quindi caratterizzata dalla segretezza”. La tesi in questione, sia detto per inciso, è stata anche sostenuta, sia pure senza adeguata motivazione, dal Garante per la protezione dei dati personali (vedi parere del 12/7/1999), secondo cui appunto, la posta elettronica sarebbe protetta ai sensi dell’art. 616, comma 4, c.p.. Lo stesso Garante, peraltro, in altro parere del 1 marzo 2001 ha, incidentalmente, ritenuto legittimo l’accesso del titolare del trattamento alla casella del dipendente in casi di necessità o di urgenza,ad es. nel caso di assenza o impedimento dell’incaricato.

Per quanto riguarda la giurisdizione contabile è da citare una sentenza della Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Piemonte del 13/11/2003 che si è occupata del problema sotto il profilo del danno erariale. Con tale decisione è stata affermata, sia pure ancora incidentalmente, la legittimità da parte dell’amministrazione pubblica della registrazione degli accessi dei dipendenti ai siti Internet ed il successivo controllo finalizzato, non solo alla repressione di comportamenti illeciti ma anche ad esigenze statistiche e di controllo della spesa. Nella specie si trattava di un dipendente di un ente pubblico che, nell’orario di lavoro, si era ripetutamente collegato a siti non istituzionali ed era stato per questo rinviato a giudizio dinanzi al Tribunale di Verbania per i delitti di cui agli artt. 314, 323 e 640, 2 comma, c.p., patteggiando poi la pena.

In ordine al potere del datore di lavoro di effettuare controlli per quanto riguarda l’uso della linea telefonica da parte del dipendente del settore privato, la sua legittimità è stata affermata, inoltre, dalla scarsa giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, che si è occupata del problema, sia pure con differenti motivazioni (vedi Cass. Sez. Lavoro, 3/4/2002, n. 4746, e l’ordinanza del Tribunale di Milano del 10/5/2002 che, in particolare, ha escluso la responsabilità del datore di lavoro ex art. 616 c.p.).

Passando ora al campo più strettamente penalistico è da dire che senza un esame del merito, non si rinvengono allo stato decisioni giudiziarie relative all’abuso della posta elettronica e della navigazione su Internet da parte del dipendente sia pubblico che privato, mediante le apparecchiature dell’ufficio. Esistono tuttavia pronunzie relative all’uso delle apparecchiature telefoniche in ambito lavorativo pubblico ma che potrebbero anche applicarsi (ed in questo senso va intesa la iniziativa della Procura della Repubblica di Verbania) all’uso illegittimo della posta elettronica ed alla navigazione non autorizzata in Internet. La Corte Suprema, in realtà, è divisa sul punto, pur ritenendo applicabile in materia l’ art. 314 del c.p. relativo al peculato. Più in particolare, mentre alcune decisioni hanno ritenuto che il fatto debba essere inquadrato nell’ipotesi prevista dal primo comma del citato articolo, punita con la grave pena della reclusione da tre a dieci anni (vedi, da ultimo, Cass. Sez. VI, 24/6/2001 13/1/2002, n.30756), altre hanno invece affermato che si trattava di “peculato d’uso”, fatto punito con la più lieve pena della reclusione da sei mesi a tre anni (vedi da ultimo, Cass. Sez. VI, 14/2/2000, n. 788). Tuttavia la stessa Corte, di fronte alla scarsa rilevanza dei reati commessi dall’imputato non se l’è sentita, per così dire, di affermare la grave responsabilità scaturente dall’applicazione dell’art. 314 c.p. ed ha, con la decisione sopracitata, compiuto una operazione di “chirurgia plastica” della norma, ammettendo come scriminante il fatto che la condotta dell’imputato appariva caratterizzata dalla eccezionalità prevista dal citato art.10 dall’allora vigente Decreto del Ministro per la Funzione pubblica.

Tutto ciò premesso, non c’è dubbio che l’intera problematica, nei suoi riflessi giuridici e normativi, andrebbe esaminata alla luce anche degli orientamenti della coscienza sociale. Appare infatti illusoire et irrealiste , come affermato in Francia dalla CNIL, organo di protezione della privacy, in un pregevole rapporto intitolato “La cybersurveillance des salariés dans l’entreprise” del marzo 2001, una proibizione assoluta dell’uso per scopi personali degli strumenti tecnologici in ambiente lavorativo.

Ciò che appare comunque urgente, di fronte alla diffusione del fenomeno, è di riesaminare l’inquadramento tradizionale dell’ipotesi di abuso nell’ambito penalistico per evitare soluzioni giurisprudenziali oggettivamente inique di fronte alla scarsa rilevanza della condotta, tenendo conto, da un lato delle esigenze di sicurezza e di correttezza amministrativa, dall’altro dalla necessità di evitare eccessive frustrazioni in ambiente lavorativo le cui conseguenze, sia detto per inciso, avrebbero come effetto una minore produttività.

In conclusione andrebbe, ad avviso degli scriventi, esaminata in via prioritaria la possibilità di “depenalizzare”, per così dire, le ipotesi non gravi di uso privato degli strumenti tecnologici di ogni tipo da parte dei pubblici dipendenti, prevedendo per i fatti una sanzione amministrativa, tenendo presenti le vigenti disposizioni in materia di depenalizzazione (cfr. legge 24/11/1981 n.689 ed il Decreto Legislativo 30/12/1999 n. 507).

Carlo e Fulvio Sarzana di S.Ippolito
www.lidis.it

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Pubblicato il
29 mag 2009
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