Per rendere più equo l'equo compenso

Per rendere più equo l'equo compenso

di Guido Scorza - Una Commissione istituita per ripensare il balzello che grava indistintamente sui supporti vergini. Si è data quattro mesi per decidere. Le premesse, i rischi, le aspettative
di Guido Scorza - Una Commissione istituita per ripensare il balzello che grava indistintamente sui supporti vergini. Si è data quattro mesi per decidere. Le premesse, i rischi, le aspettative

Si è insediata lo scorso 28 maggio presso il Ministero dei beni e delle attività culturali la Commissione che nei prossimi mesi – il termine dei lavori è previsto per il 30 settembre – dovrà stabilire i criteri di determinazione e l’entità del c.d. equo compenso che l’ art. 71 septies della Legge sul diritto d’autore riconosce agli autori e produttori di fonogrammi, nonché ai produttori originari di opere audiovisive, agli artisti interpreti ed esecutori ed ai produttori di videogrammi, e loro aventi causa per la riproduzione privata di fonogrammi e di videogrammi di cui all’ articolo 71 sexies , ovvero la c.d. copia privata. Si tratta di una notizia ormai attesa da tempo anche se non per questo da salutare con favore.

Le attuali “tariffe” dell’equo compenso sono, infatti, quelle fissate con la “disposizione transitoria” dettata all’art. 39 del Decreto Legislativo 9 aprile 2003, n. 68 che avrebbe dovuto rimanere in vigore fino “al 31 dicembre 2005, e comunque fino all’emanazione del decreto di cui allo stesso art. 71-septies” e che, invece, vi è rimasta per oltre sei anni.

L’equo compenso per copia privata, introdotto nel nostro Ordinamento con il già richiamato D. Lgs. 68/2003, costituisce uno dei tanti balzelli di cui, in modo più o meno consapevole, ciascuno di noi si trova a farsi carico ogni qualvolta acquista un supporto idoneo alla registrazione di immagini o suoni e quindi, solo per fare alcuni esempi, musicassette, VHS, CD o DVD in forza della disciplina attualmente vigente ma, in prospettiva, anche memory card, pennette USB, dischi rigidi, dispositivi di telefonia mobile dotati di unità di memorizzazione, lettori multimediali, hard disk incorporati in decoder, masterizzatori ed ogni altro genere di riproduttore multimediale idoneo alla registrazione, anche non esclusiva, di suoni o immagini.

Il presupposto impositivo è tanto semplice quanto discutibile nel merito e nel metodo. L’art. 71 sexies LDA riconosce all’utente legittimo dell’opera la possibilità – inutile attardarsi qui a discutere se si tratti di diritto soggettivo o piuttosto limite o eccezione ai diritti patrimoniali spettanti all’autore – di effettuare una copia privata – rectius ad uso privato – dell’opera stessa. L’effettuazione di tale copia non è tuttavia esattamente gratuita, nel senso che a fronte di tale possibilità l’Ordinamento riconosce agli aventi diritto un equo compenso su ogni supporto potenzialmente utilizzabile per registrare detta copia ed a prescindere dalla circostanza che esso sia poi effettivamente utilizzato per registrarvi la copia privata di un’opera dell’ingegno, delle analisi mediche, il filmino di un matrimonio o, piuttosto, le foto di una vacanza.

In buona sostanza, chiunque acquista un supporto idoneo alla registrazione di “fonogrammi o videogrammi” finisce con il pagare il prezzo della copia privata effettuata da qualcun altro. Potremmo definirlo, con una battuta, uno strumento di ripartizione sociale del costo dell’accesso e della diffusione della cultura: un compenso equo e solidale! I numeri generati ogni anno dai compensi per copia privata raccolti dalla SIAE e dall’IMAIE nonché da una pletora di altri soggetti ed associazioni, tuttavia, non consentono di liquidare il problema con una battuta: nel solo 2007, la SIAE ha incassato equi compensi per 70 milioni di euro mentre l’IMAIE – di recente estinto dal prefetto di Roma e poi “cautelativamente” resuscitato dal TAR Lazio – si è dovuto accontentare di circa 27 milioni di euro. Una montagna di soldi spillati all’industria ed al mercato dei supporti e solo in una percentuale modesta finiti a remunerare effettivamente i titolari dei diritti d’autore su opere oggetto di copie private. Gli alchimistici meccanismi di ripartizione dei compensi per copia privata utilizzati dalla SIAE sono noti da tempo mentre, da qualche settimana, in occasione del crack IMAIE, si è appreso che l’Ente aveva nel suo pancione oltre 118 milioni di euro che non è sin qui riuscito a distribuire agli aventi diritto, non conoscendo neppure i loro indirizzi.

Impossibile, in tale contesto, non interrogarsi sull’opportunità di perseverare su una soluzione che nella migliore delle ipotesi redistribuirebbe ricchezza tra ricchi in modo del tutto casuale e che, nella peggiore, rischia di influenzare mercati e tecnologie importanti per lo sviluppo del Sistema Paese in assenza di qualsivoglia prova circa i vantaggi prodotti in termini di promozione della creatività e del sistema culturale italiano. L’unica certezza, infatti, a guardare all’attuale sistema di gestione dell’equo compenso nel nostro Paese, è che esso produce ricchezza per gli intermediari dei diritti: SIAE, IMAIE e compagni.

Si tratta di constatazioni semplici e diffuse tra gli addetti ai lavori. Sorprende, delude e dispiace, pertanto, che dopo sei anni di regime sperimentale e disciplina transitoria il Governo di un Paese che ambisce a definirsi moderno e civile non sappia far di meglio che preoccuparsi di individuare nuovi ed improbabili criteri di determinazione dell’equo compenso senza neppure interrogarsi sull’opportunità di perseverare nell’errore.

Il legislatore europeo, infatti, con la Direttiva 29/2001/CE ha autorizzato i legislatori degli Stati membri a prevedere un regime di equi compensi – sino a quando, peraltro, la tecnologia non avesse consentito di farne a meno ponendo a disposizione sistemi di imputazione dei compensi più equi – ma non ha imposto alcun obbligo in tal senso. Siamo sicuri che il mondo della cultura italiana non possa far a meno dell’equo compenso e, soprattutto, siamo convinti – su base scientifica – che i benefici, ammesso che esistano, apportati al mondo della creatività siano superiori ai sicuri malefici arrecati all’industria ed ai diversi comparti del mercato tecnologico interessati al fenomeno?

La sensazione è che, anche in questo caso, come in relazione al fenomeno della pirateria audiovisiva si proceda per sentito dire o, piuttosto, prestando ascolto a lobby capaci di urlare più forti delle altre – e soprattutto di cittadini e consumatori – le proprie esigenze e richieste. Nel caso della pirateria si chiedono – e probabilmente otterranno – a gran voce nuove soluzioni di enforcement liberticide sostenendo ma non provando che tale fenomeno arrecherebbe all’industria danni per oltre 2 miliardi di euro l’anno. Allo stesso modo, nel caso dell’equo compenso, si chiede – e naturalmente si ottiene – che il Governo stabilisca nuovi, più diffusi e più salati compensi, dando per scontato che la più parte dei supporti venga utilizzato per l’effettuazione di copie private. Nell’un caso e nell’altro nessuno sembra interessato a studiare i fenomeni, comprenderli e proporre più equilibrate soluzioni. Peccato. L’Italia è un grande Paese che – specie in termini di cultura – spesso potrebbe dare l’esempio.

Ma c’è di più.
Con quasi sei anni di ritardo, infatti, il Governo ha deciso di porre mano alla revisione dei criteri di determinazione dell’equo compenso per copia privata. Meglio tardi che mai, potrebbe dirsi, ma in questo caso non è esattamente così.

Il 31 ottobre del 2008, infatti, la Audiencia Provincial de Barcelona ha sottoposto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea una domanda pregiudiziale relativa proprio ai poteri degli Stati membri nella determinazione dei criteri cui ispirare la disciplina nazionale sull’equo compenso. I giudici spagnoli hanno posto ai magistrati europei una lunga serie di domande volte, sostanzialmente, ad accertare se sia legittima una disciplina nazionale come quella spagnola – non diversa in ciò da quella italiana – che imponga il pagamento di un equo compenso per copia privata “indiscriminatamente su tutti gli apparecchi, i dispositivi ed i materiali di riproduzione digitale” ed anche a “imprese e professionisti che chiaramente acquistano gli apparecchi e i supporti di riproduzione digitale per finalità estranee alla copia privata”. In pendenza di tale giudizio dinanzi ai supremi giudici europei, prudenza, buon senso e ragioni di opportunità avrebbero, probabilmente, dovuto suggerire di attenderne almeno la definizione per evitare di varare un nuovo provvedimento destinato a scontrarsi con la decisione dell’Alta Corte. Niente da fare, invece: la parola d’ordine sembra sempre la stessa: agire così come richiesto da chi urla di più.

Ma torniamo all’equo compenso. La recente istituzione della Commissione presso il Ministero dei beni e delle attività culturali e la volontà già espressa dal suo Presidente di concludere i lavori entro il 30 settembre – non certamente per sua scelta! – non lascia grandi speranze circa la possibilità che il Governo intenda attendere la decisione dei Giudici di Strasburgo prima di varare il nuovo regolamento sull’equo compenso. C’è forse, però, ancora la speranza che competenza, esperienza e buon senso di molti dei membri della neo-istituita Commissione valgano, almeno, a contenere il danno. Si tratta di una speranza legata alla prospettiva di tener conto – in sede di determinazione di criteri e misure dell’equo compenso – dell’effettiva e concreta possibilità che taluni supporti e strumenti siano utilizzati, in via prevalente, per l’effettuazione di copie private e non piuttosto per la registrazione di contenuti i cui diritti d’autore sono già stati puntualmente assolti – anche in relazione alla copia – o, piuttosto, non esistono affatto. Sarebbe, in altre parole, almeno opportuno – e si tratterebbe, comunque, di una magra consolazione – che il regolamento che la commissione dovrà elaborare preveda un’ampia gamma di eccezioni all’obbligo di versamento dell’equo compenso per tutta una serie di ipotesi quali, ad esempio, i supporti destinati all’utilizzo in ambito medico (registrazione di lastre, TAC, risonanze magnetiche ecc.), le memorie ospitate in dispositivi di telefonia mobile spesso e volentieri acquistati per ragioni che poco o nulla hanno a che vedere con la volontà di riprodurvi copie private di opere protette, stampanti o, piuttosto, hard disk portatili finalizzati a fungere più di frequente da memorie di back-up di PC che non da archivi di copie private. Non basta, al riguardo, il sistema dei rimborsi già in uso poiché in pochi ne approfittano e le relative procedure sono complesse, lunghe e macchinose.

Un’ultima annotazione. Sarebbe stato auspicabile che fossero invitati a sedersi al tavolo della Commissione anche i rappresentanti dei consumatori e degli utenti oltre a quelli dell’industria, del mondo della cultura e del diritto. L’ho già scritto altre volte ma vale forse la pena ripeterlo: i consumatori di cultura digitale italiani non sono pirati e, nella più parte dei casi, sono pronti a ragionare con l’industria dei contenuti e con gli autori su soluzioni eque e ragionevoli idonee a garantire un contemperamento dei contrapposti interessi.

Non ci resta, in ogni caso, che augurarci che la Commissione faccia il miglior lavoro possibile date le premesse che – è inutile negarlo – non sono entusiasmanti. E che si riesca, per questa strada, a rendere più equo – o almeno meno iniquo – l’equo compenso.

Guido Scorza
www.politicheinnovazione.eu

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Pubblicato il
3 giu 2009
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