Equo compenso?

Equo compenso?

di G. Scorza - Il ministro Bondi ha firmato: SIAE dovrà redistribuire agli autori denari che proverranno dalla vendita di dispositivi di archiviazione di ogni tipo, telefonini compresi. Anche se non destinati alla copia privata
di G. Scorza - Il ministro Bondi ha firmato: SIAE dovrà redistribuire agli autori denari che proverranno dalla vendita di dispositivi di archiviazione di ogni tipo, telefonini compresi. Anche se non destinati alla copia privata

Il fatto è ormai noto e d’altro canto non giunge inatteso, costituendo anzi l’epilogo pressoché scontato di una storia che viene da lontano e che segue, in modo puntuale, un copione tutto italiano che prevede che si istituisca un tavolo tra soggetti portatori di contrapposti interessi al solo fine di legittimare una scelta politica, in realtà, già assunta nelle solite stanze dei bottoni. Il 30 dicembre 2009, mentre gli italiani stavano per buttarsi alle spalle quello che verrà ricordato come l’anno della crisi, il Ministro Bondi, rimasto solo o quasi nelle stanze del Suo Dicastero, ha firmato il Decreto con il quale si stabiliscono contenuti e misure del c.d. equo compenso per copia privata.

La notizia, tuttavia, è stata resa nota – anche in questo caso secondo un copione che non sorprende – solo ieri attraverso il sito del Ministero per i beni e le attività culturali.
A beneficio di quanti ancora non lo sapessero, prima di proseguire, vale la pena ricordare che l’equo compenso di cui si parla è quello che l’ art. 71 septies LDA riconosce ai titolari dei diritti a fronte della facoltà accordata a tutti gli utilizzatori legittimi di un’opera di effettuarne una copia privata.

La firma del decreto costituisce l’ultimo atto di un procedimento avviato lo scorso 28 maggio con l’insediamento presso lo stesso Ministero dei beni e delle attività culturali di un’apposita Commissione di Studio e poi culminato in una riunione svoltasi lo scorso 10 dicembre, nell’ambito della quale la distanza tra la posizione dei rappresentanti dei titolari dei diritti e quella dei rappresentanti delle associazioni di categoria maggiormente rappresentative dei produttori di supporti e di apparecchi, nonché dei consumatori, è apparsa – così come si registra puntualmente nella relazione di accompagnamento al decreto – incolmabile.
Il contenuto del decreto costituisce – salve talune marginali eccezioni – il recepimento pressoché pedissequo delle istanze rappresentate dai primi ed il pressoché integrale rigetto delle istanze dei secondi.

Le uniche eccezioni significative appaiono rappresentate dalla circostanza che il Ministro abbia deciso di limitare nell’importo fisso di 0.90 centesimi di euro il compenso dovuto per ogni telefonino cellulare e negli importi, anch’essi fissi, rispettivamente di 2,40 euro e di 1,90 euro, i compensi dovuti per computer con o senza masterizzatore.
Tali compensi, infatti, venivano originariamente rapportati alla capacità di registrazione dei relativi supporti così come previsto, nella versione approvata del decreto, per la pressoché totalità dei supporti di registrazione installati su apparecchi.

Se, tuttavia, si tiene presente che in Italia, nello scorso anno, sono stati venduti circa 22 milioni di telefonini, si capisce bene che “accontentarsi” di poco meno di 20 milioni di euro è un lussuoso accontentarsi…
Lascio a chi conosce meglio di me il mondo dei numeri e delle cifre raccontare, nei giorni che verranno, cosa esattamente significhi il varo del nuovo decreto sui comparti industriali interessati, limitandomi ad evidenziare che per effetto delle nuove norme i titolari dei diritti si troveranno ad incassare nel 2010 un importo difficilmente inferiore ai 300 milioni di euro contro i 70/80 incassati nell’ultimo anno, con un maggior guadagno di circa il 400%.

Solo per fornire un’altra indicazione “quantitativa” utile alla comprensione della rilevanza della vicenda, sembra opportuno ricordare che nel 2008 la SIAE ha complessivamente incassato compensi per 671 milioni di euro e che tale importo è destinato, per effetto delle nuove disposizioni varate dal Ministro Bondi il 30 dicembre, a lievitare di circa il 50% nel prossimo anno.

Questi numeri e gli altri che, appunto, lascio ad altri raccontare, rendono necessaria una prima riflessione su quanto sta accadendo, riflessione che prescinde completamente dalla legittimità o illegittimità – a stretto rigore di legge – del decreto appena varato: per effetto della nuova normativa, di fatto, si introduce in Italia una sorta di nuovo modello di business, di non comprovata sostenibilità, secondo il quale i titolari dei diritti, a prescindere dalla quantità e qualità di opere audiovisive immesse in distribuzione, hanno diritto a circa 300 milioni di euro all’anno.

Difficile, in tale contesto, sostenere che il Decreto Bondi costituisca una misura idonea a promuovere cultura e creatività.

Sul contenuto del decreto e sulla legittimità dello stesso sotto numerosi profili si potrebbero scrivere terabyte di considerazioni ma, le nuove norme rendono tanto costosa e preziosa la capacità di memorizzazione da suggerire di limitarsi, qui, ad alcune suggestioni, rinviandone ogni approfondimento sulla vecchia e più economica carta, magari da utilizzare nelle aule di qualche tribunale europeo o nazionale per chiedere con l’occasione ad un Giudice di verificare che gli utenti italiani di tecnologia e la relativa industria di riferimento meritino davvero il regalo di Natale loro riservato dall’On. Bondi.

Cominciamo dal titolo del decreto, che nasconde un primo profilo sul quale sarà opportuno svolgere qualche ulteriore riflessione analogica: il provvedimento è intitolato “Decreto Ministeriale di cui all’art. 71 septies della legge 22 aprile 1941 n. 633 recante Determinazione della misura del compenso per copia privata”. Tale titolo è coerente con il comma 2 del richiamato art. 71 septies della Legge sul diritto d’autore che, in effetti, prevede che “Il compenso di cui al comma 1 è determinato, nel rispetto della normativa comunitaria e comunque tenendo conto dei diritti di riproduzione, con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, da adottare entro il 31 dicembre 2009…”.

Difficile, tuttavia, sostenere che anche il contenuto del Decreto sia coerente con il suo titolo e, quindi, con la norma. Il Ministro, infatti, non si è limitato a stabilire la “misura del compenso” dovuto in relazione agli apparecchi e supporti individuati al comma 1 del medesimo art. 71 septies ma, è almeno lecito sospettare, che sia andato ben oltre.
Proviamo a capire perché.

Il primo comma dell’art. 71 septies della legge sul diritto d’autore prevede che ” Gli autori ed i produttori di fonogrammi, nonché i produttori originari di opere audiovisive, gli artisti interpreti ed esecutori ed i produttori di videogrammi, e i loro aventi causa, hanno diritto ad un compenso per la riproduzione privata di fonogrammi e di videogrammi di cui all’articolo 71-sexies. Detto compenso è costituito, per gli apparecchi esclusivamente destinati alla registrazione analogica o digitale di fonogrammi o videogrammi, da una quota del prezzo pagato dall’acquirente finale al rivenditore, che per gli apparecchi polifunzionali è calcolata sul prezzo di un apparecchio avente caratteristiche equivalenti a quelle della componente interna destinata alla registrazione, ovvero, qualora ciò non fosse possibile, da un importo fisso per apparecchio. Per i supporti di registrazione audio e video, quali supporti analogici, supporti digitali, memorie fisse o trasferibili destinate alla registrazione di fonogrammi o videogrammi, il compenso è costituito da una somma commisurata alla capacità di registrazione resa dai medesimi supporti. Per i sistemi di videoregistrazione da remoto il compenso di cui al presente comma è dovuto dal soggetto che presta il servizio ed è commisurato alla remunerazione ottenuta per la prestazione del servizio stesso “. Il principio fissato da tale disposizione è, dunque, questo: i titolari dei diritti hanno diritto ad un compenso per la riproduzione privata di fonogrammi e videogrammi in relazione alle seguenti categorie di apparecchi e supporti: apparecchi esclusivamente destinati alla registrazione analogica o digitale di fonogrammi o videogrammi, apparecchi polifunzionali e, infine, “supporti di registrazione audio e video quali… memorie fisse o trasferibili destinate alla registrazione di fonogrammi o videogrammi”.

La ratio della norma sembra chiara: garantire ai titolari dei diritti una remunerazione – nell’espressione compenso leggo il concetto di corrispettività – per la copia privata realizzata dai legittimi utenti delle opere attraverso apparecchi o supporti DESTINATI alla registrazione di fonogrammi o videogrammi. Il legislatore, attraverso il comma 2 dell’art. 71 septies LDA, demanda al Ministro la determinazione di tale compenso con l’obbligo, peraltro, di tener conto, dell’apposizione o meno delle misure tecnologiche di cui all’art. 102 quater LDA.
Quest’ultimo elemento costituisce un ulteriore indice sintomatico dell’inequivoca volontà del legislatore di ancorare il presupposto del diritto al compenso all’effettiva ragionevole probabilità che l’apparecchio o il supporto sia destinato alla registrazione di fonogrammi o videogrammi. È ovvio, infatti, che ove, ad esempio, attraverso misure tecniche, tale eventualità fosse esclusa o resa remota, nessun compenso o solo un compenso assai modesto, potrebbe essere richiesto.

Nel Decreto appena varato, tuttavia, il Ministro sembra aver completamente dimenticato i limiti del potere regolamentare affidatogli e sembra essersi spinto ad imporre il pagamento di un compenso anche in relazione a “memorie fisse o trasferibili” NON “destinate alla registrazione di fonogrammi o videogrammi” in esecuzione della copia privata. Si tratta di una categoria di prodotti in relazione ai quali il Decreto sembra varato in totale assenza della necessaria potestà.

Le memorie di milioni di telefoni cellulari – perché destinate ad utenze business o per caratteristiche intrinseche – non possono considerarsi destinate alla registrazione di fonogrammi e videogrammi da copia privata, così come le memorie installate in milioni di PC e supporti di registrazione acquistati ogni anno dalla PA e da altri enti pubblici e privati che per prassi, policy o, addirittura, provvedimenti amministrativi è escluso possano essere utilizzati per la registrazione di fonogrammi o videogrammi frutto di copie private.
Si tratta di un elenco che potrebbe proseguire a lungo e che riguarda, ad esempio, i decoder satellitari dotati di hard disk e forniti dai gestori delle piattaforme sui quali possono essere effettuate unicamente registrazioni in esecuzione del contratto in essere con il content provider ma anche pen drive nonché apparati e supporti destinati ad un uso professionale.

Al riguardo sembra opportuno ricordare che il 31 ottobre del 2008, la Audiencia Provincial de Barcelona ha sottoposto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea una domanda pregiudiziale relativa proprio ai poteri degli Stati membri nella determinazione dei criteri cui ispirare la disciplina nazionale sull’equo compenso e che, in tale contesto, i giudici spagnoli hanno posto ai magistrati europei una lunga serie di domande volte, sostanzialmente, ad accertare se sia legittima una disciplina nazionale come quella spagnola – non diversa in ciò da quella italiana – che imponga il pagamento di un equo compenso per copia privata “indiscriminatamente su tutti gli apparecchi, i dispositivi ed i materiali di riproduzione digitale” ed anche a “imprese e professionisti che chiaramente acquistano gli apparecchi e i supporti di riproduzione digitale per finalità estranee alla copia privata”.
Sembra, dunque, che qualche perplessità sussista anche in relazione alla compatibilità del Decreto appena varato con il quadro normativo europeo.

Gli italiani, il prossimo anno, acquisteranno probabilmente meno tecnologia e pagheranno più diritti per opere delle quali, probabilmente, non beneficeranno e beneficeranno dopo aver pagato il giusto prezzo.

Faccio fatica a registrare questa conclusione come il segno del progresso culturale o della semplice applicazione della legge ma, probabilmente, sbaglio io, sbagliano quanti – industria e consumatori – avevano tentato di scongiurare il rischio che il decreto venisse varato con l’attuale contenuto e sbagliano quanti ritengono che l’Italia voglia davvero divenire un Paese moderno.

Non c’è niente di moderno in un Paese che, nell’era del digitale, potendo contare bit per bit la quantità di cultura di cui ciascun cittadino beneficia davvero, sceglie di utilizzare metodi e forme almeno arcaiche di remunerazione degli aventi diritto senza neppure potersi dire sicuro che ciascun autore, alla fine dell’anno, avrà davvero ciò che il suo sforzo creativo, la sua capacità ed i suoi talenti meriterebbero avesse.

Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it

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Pubblicato il 15 gen 2010
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