Quasi sempre a pensare male non si sbaglia, ma alcune volte a pensar male si sopravvaluta il sistema, che sia una persona, un gruppo o un’azienda. Progettare e mettere in pratica il “male” richiede intelligenza, velocità e attenzione: sbagliare (magari in buona fede) è molto più frequente.
Questa non è una giustificazione o una scusante: personalmente ritengo la stupidità e l’incompetenza mali peggiori della cattiveria. Come scrive Carlo M. Cipolla nelle Leggi fondamentali della stupidità umana , “Una persona stupida è chi causa un danno ad un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita”.
Il reverse engineering per capire se dietro un problema c’è un errore o delle cattive intenzioni (o entrambi) è assai divertente e soprattutto utile. Negli ultimi giorni due realtà molto importanti del web si sono trovate in situazioni che presentano le caratteristiche tipiche dell’errore umano scambiato per comportamento intenzionale (o viceversa): Google e WordPress.com.
Come tutti sanno, Google ha lanciato un’estensione di Gmail chiamata Buzz e l’operazione non è andata benissimo . Centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo si sono lamentate dell’invasività del sistema che esplicitava come follower automatici le persone con cui ci si era scritti di più, via Gmail e Gtalk. L’opinione comune, diffusasi molto velocemente, è che questo fosse un attacco alla privacy degli utenti per sfruttare commercialmente i dati relativi. I designer di Buzz invece non hanno fatto altro che estendere a Buzz l’autofollow di Gtalk, per cui se scambi un po’ di mail con una persona questa entra nella tua lista di contatti.
Un errore, e un errore grave, ma non un tentativo di turlupinare gli utenti estorcendo loro dati sensibili. I designer hanno cercato di risolvere alla base un problema noto dei social network: come evitare agli utenti di trovarsi un ambiente nuovo da popolare. L’autofollow poteva sembrare una soluzione valida, anche se, come è stato evidente dopo, per evitare problemi bastava chiedere all’utente di confermare le persone invece di aggiungerle automaticamente, come fatto adesso in risposta alle critiche.
WordPress.com ha pagato invece abbastanza cara, anche se su piccola scala, l’applicazione poco meditata delle condizioni di servizio che prevedono l’oscuramento del blog ospitato dalla piattaforma se contiene materiali illegali. Una blogger (che non citiamo per evitarle ulteriori problemi) ha scritto un post critico sulla pubblicità di uno stilista, con commenti (di terzi) lesivi della reputazione: lo stilista invece di scrivere a lei per chiedere la rimozione dei commenti ha scritto a WordPress, WordPress invece di scrivere a lei (come da buone maniere di customer care) ha oscurato il blog senza informarla.
Questo vuol dire che WordPress.com ha deciso di censurarla? Non direi proprio: direi invece che qualcuno – una persona singola – si è fatto prendere dal panico e nell’incertezza ha esagerato. Il blog è tornato online poco dopo senza il post incriminato, che però è stato rebloggato da diverse persone più propense a pensare al “male” che all’errore. Errore reiterato sia da WordPress (che non ha ritenuto neanche di scusarsi) sia dallo stilista, che denunciando il post ha attirato l’attenzione su di sé e sulle critiche ricevute.
In entrambi i casi non sapremo mai la verità: non sapremo mai come sono andate le cose e quali fossero veramente le intenzioni, e non è questo il punto, sono solo due esempi abbastanza tipici di una situazione emotiva collettiva caratterizzata dalla paura e dal sospetto. Non immotivati, certo, ma neanche completamente giustificati, soprattutto nei confronti di due aziende che possono vantare un certo attivo nella partita doppia tra dare e avere con i propri interlocutori (soprattutto WordPress).
Mi spaventa un po’ quando vedo che siamo tutti pronti a partire per la caccia alle streghe, incapaci di prendere in considerazione che anche le aziende sono fatte di persone, che anche le persone sbagliano e che quando sbagliano senza essere immediatamente attaccate riescono anche ad ascoltare le critiche e a porre rimedio. Se invece la modalità è “tutti sono umani e hanno diritto a essere trattati e rispettati come tali, tranne evidentemente le persone che lavorano in un’azienda”, lo spazio per relazioni e conversazioni collaborative si restringe fino a scomparire. Il che non vuol dire permettere alle aziende di abusare della nostra fiducia, ma provare a non considerarle tutte come monoliti pronti a non meritarla.
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