La notizia la conosciamo . Le reazioni, peraltro, abbastanza prevedibili e non sempre capaci di scavare in profondità: “morte degli UGC”, “fine dell’Internet libera”, “censura alla cinese”. Nei casi migliori, la stampa internazionale specializzata parla di pericoloso precedente .
Qualcuno però – è il caso, ad esempio, di Stefano Quintarelli – invita alla prudenza , non essendo del tutto certo – prima di analizzare gli atti delle sentenze – del crucifige generale che ormai in rete la fa da padrone su magistratura e politica. La solita storia, insomma, della magistratura incapace di legiferare su Internet poiché ignorante delle sue dinamiche. È proprio così? Non lo sapremo fin quando non leggeremo le carte, facciamocene una ragione. Ma qualche ragionamento possiamo provare a farlo. Innanzitutto, chiediamoci la cosa che ci interessa di più: per cosa è stata condannata Google? Perché avrebbe dovuto controllare preventivamente il video prima di renderlo disponibile? Se fosse così, il crucifige sarebbe in qualche modo giustificato.
Secondo Stefano Quintarelli – che ribadisce però la sua prudenza e implora di “dare sentenze” solo dopo aver letto gli atti – la responsabilità addebitata a Google potrebbe essere riferita alla circostanza che le condizioni d’uso del servizio non specificassero il richiamo alle regole della privacy, non trasferendone, quindi, l’obbligo di rispetto agli utenti. Si tratterebbe dunque di “Un problema essenzialmente formale”.
Ma c’è un altro aspetto che – se fosse confermato tal quale – sembrerebbe suggerire alla Rete di dormire sonni tranquilli. Ossia, per quanto dichiarato dall’avvocato Giuliano Pisapia, il legale che ha difeso Google in giudizio, parrebbe non essere passato “il principio che pretendeva l’obbligo giuridico di un controllo preventivo di cosa viene immesso in rete”. Morale della favola: di cosa ci staremmo preoccupando? A Google & Co. – in tal caso – basterebbe in futuro mettere un disclaimer da qualche parte nelle condizioni di servizio e il gioco sarebbe fatto. Nessun precedente, insomma. A nessuno sarebbe chiesto – cosa assurda e improponibile – un controllo preventivo di cosa è immesso in Rete.
Problema risolto? Tanto rumore per nulla? L’avvocato Pisapia, il legale che ha difeso Google, ha chiarito a Punto Informatico che le cose non stanno affatto così. La non sussistenza dell'”obbligo giuridico di un controllo preventivo di cosa viene immesso in rete, infatti, riguarda – ha precisato il legale – il solo capo a) dell’imputazione, ossia quello che si riferisce alla parte penale relativo alla diffamazione”. Tipologia di reato per la quale Google è stata assolta.
Riguardo al capo b), invece, quello relativo alla privacy, tipologia di reato per la quale Google è stata condannata, “non è affatto possibile escludere – Pisapia si augura non sia così, ma non lo si saprà precisa prima dei novanta giorni necessari alla deposizione degli atti – che a Google si contesti la non applicabilità della direttiva sull’e-commerce (o l’applicabilità in forme diverse)”.
In soldoni: se il capo a) sembra allontanare gli spettri del controllo preventivo dei contenuti, il capo b) potrebbe farlo rientrare in gioco in tutta la sua drammatica potenzialità. Parola del legale di Google che dichiara esplicitamente a Punto Informatico di essere “molto preoccupato per il destino della Rete” qualora ciò malauguratamente avvenisse.
Preoccupazione alla quale si aggiunge, tra l’altro, quella di mettere in ridicolo l’intera internet italiana agli occhi della comunità internazionale. E non ne abbiamo davvero bisogno.
Massimo Mattone