Un piccolo imprenditore svedese ha fatto causa a Google Svezia per diffamazione: l’accusa è di aver riportato, nei risultati della ricerca relativa alla sua attività, link a blog che la collegavano a oscuri affari e che dipingevano lui stesso come un pedofilo .
L’uomo, 61enne, ha chiesto un milione di corone (circa 100mila euro) di danni: pubblicità negativa e diffamazione secondo il codice penale svedese. Bisogna tuttavia verificare se basterà la semplice indicizzazione dei contenuti incriminati.
“Ho pochissime possibilità, Google è talmente ricca e grande e non può permettersi di perdere un processo del genere – ha spiegato l’uomo – vorrebbe dire che dovrebbe assumersi la responsabilità di tutto quello che pubblica”. Il 61enne si accontenterebbe, d’altronde, di affrontare la tematica delle responsabilità del motore di ricerca. Anche se questo dovrà significare spendere migliaia di corone in spese legali.
La questione riguarderebbe proprio quel termine “pubblicare” utilizzato dall’uomo nell’accusa: indicizzare contenuti già disponibili escluderebbe l’opera del motore di ricerca da tale concetto, tuttavia le anteprime che BigG offre nella pagina dei risultati costituirebbero di fatto una pubblicazione (almeno secondo l’accusa).
L’uomo si era già rivolto alle forze dell’ordine denunciando colui che crede essere alla fonte della diffamazione: tuttavia le investigazioni sono ancora in corso e la polizia non ha ancora rintracciato chi si nasconde dietro i blog anonimi . “Socialmente è la peggiore accusa che ti possa cadere addosso in Svezia: e sia io che i miei affari ne abbiamo risentito gravemente”.
Un precedente brasiliano ha visto Google condannata perché un prete era stato accusato di pedofilia attraverso il social network Orkut, di proprietà di Mountain View. Tuttavia a ispirare l’uomo è stato il caso Vividown , che ha posto l’Italia a ricoprire un ruolo particolare in tema di responsabilità e tutela della privacy in Rete.
Nel frattempo negli Stati Uniti Beverly “Bev” Stayart continua la sua battaglia legale che, per il momento, le ha dato solo responsi negativi: nonostante la corte abbia respinto la sua prima accusa nei confronti di Yahoo!, la donna ha continuato e ha deciso ora di chiamare davanti al giudice anche Google, sempre perché nei suggerimenti di ricerca collegherebbe il suo nome al prodotto farmaceutico Levitra, cui viene associata anche grazie ad articoli come questo che parlano della causa da lei stessa intentata.
Claudio Tamburrino