Il caso è Arista v. Doe 3 , e la sentenza è una di quelle destinate a far discutere: l’industria discografica capitanata da RIAA era alla caccia delle vere identità di 16 condivisori sul P2P, attivi sul network dalla State University of New York nella città di Albany. Uno di questi ignoti condivisori, il “Doe 3” indicato appunto nella causa, si era opposto alla citazione delle etichette nei confronti del suo ISP appellandosi al diritto all’anonimato difeso dal Primo Emendamento . Richieste respinte, nel primo come nel secondo grado di giudizio.
Nella sua decisione la corte di appello ha confermato la sentenza già emessa in primo grado, sostenendo che “se l’anonimato è usato per mascherare l’infrazione del copyright o per facilitare tale infrazione da parte di terzi, esso non è protetto dal Primo Emendamento”. Doe 3 non può farsi scudo della Costituzione americana, mentre gli ISP hanno tutto il diritto di conoscere la sua vera identità anche solo con il sospetto della condivisione non autorizzata.
Neanche a dirlo, lo sbilanciamento della sentenza in favore dei provider non è stata accolta con leggerezza dagli ambienti vicini al P2P, dove si sottolinea come il giudice di appello abbia sostanzialmente dato via libera alle investigazioni private e alla possibile battaglia da condurre contro un utente a partire da un semplice hash di un file raccolto in rete.
Sia come sia, una differenza tra la nuova sentenza e quella vecchia, piccola eppur significativa, c’è: in precedenza il giudice aveva stabilito che la mera condivisione di una cartella piena di file multimediali “cancella qualsiasi pretesa di privacy”, mentre la corte di appello ha sentenziato che “la privacy a cui qui ci si richiama non riguarda le informazioni che il proprietario del computer o l’utente desidera condividere ma piuttosto la sua stessa privacy”. A venire condivisa online non è insomma l’identità del condivisore ma solo la sua libreria di contenuti multimediali.
Alfonso Maruccia