Google, privacy e ingegneri

Google, privacy e ingegneri

Riservatezza non son solo dichiarazioni spinose: Google affronta il tema della privacy mettendo in campo un ingegnere. Per imparare ad apprendere dagli utenti senza conoscerli personalmente
Riservatezza non son solo dichiarazioni spinose: Google affronta il tema della privacy mettendo in campo un ingegnere. Per imparare ad apprendere dagli utenti senza conoscerli personalmente

Milano – Le questioni legali agli esperti di diritto, e le polemiche a coloro che le vogliano alimentare: Alma Whitten , ingegnere Google dal 2003 e rappresentante del team di engineering nel Privacy Council della Grande G, è a Milano per inerpicarsi sul versante tecnico, per spiegare come Google tuteli i dati degli utenti. Per quanto attiene le ricerche e l’advertising, per quanto riguarda i servizi offerti da Mountain View.

Nuove sfide, nuovi strumenti per affrontarle: quando Alma Whitten ha iniziato a bazzicare in Rete sembrava che la popolazione connessa fosse composta da studenti. Ma i cittadini della rete si sono moltiplicati, Internet è diventata un ambiente di interazione, il web è diventato uno spazio da leggere e da scrivere, ricorda Whitten. Sono proliferati i servizi, si sono moltiplicati gli strumenti, gli spazi a cui affidare informazioni e dati personali. Ed è così, spiega Whitten, che la privacy, argomento da sempre di fondamentale importanza, ha assunto una rilevanza e un aspetto tangibile.

Tangibile solo da ora per certi utenti, tangibile da sempre, e in continua fase di affinamento, per coloro che forniscono i servizi. Alma Whitten ripercorre la storia di Google e ricorda che la persona è importante quanto la macchina per migliorare i servizi. Il fattore umano vale almeno quanto il Pagerank: la macchina “grande e misteriosa” di Google – così viene spesso percepita dai suoi utenti, racconta Whitten – per migliorarsi necessita di macinare i dati distillati dalle interazioni con i cittadini della Rete, necessita di raccogliere informazioni sui comportamenti degli utenti per restituire risultati più aderenti alle richieste dell’individuo, e advertising capace di colpire meglio il bersaglio.

Per questo motivo la Grande G ingolla sconfinate moli di dati, le rumina e, spiega Whitten, apprende dai buoni e combatte i cattivi delle botnet e delle link farms. Solo monitorando i comportamenti degli umani e facendoli propri Google può organizzare l’informazione secondo criteri il più possibile vicini a quelli adottati dai cittadini della Rete. E solo con i log che ritraggono query e click è possibile entrare nella mente dell’utente e offirgli rilevanza nei risultati, anticipare desideri, mettere a disposizione servizi che vadano al di là dei semplici risultati delle ricerche. I log diventano piccole storie di query e scelte, di query e correzioni, che assumono la forma di risultati sempre più rilevanti e di parole chiave senza errori di battitura, di pubblicità tagliata su misura dell’utente come quella del servizio di interest based advertising , di servizi come Translate o Flu Trends .

Se alla Grande G è necessario lavorare su enormi quantità di dati, è altresì vero, chiosa Whitten, che non è necessario sapere chi si celi diatro all’indirizzo IP di chi effettua la ricerca o usufruisce dei servizi. Google, ricorda Whitten, tratta dal punto di vista tecnico l’IP come fosse un dato personale, li conserva per nove mesi e poi li anonimizza eliminandone gli ultimi 8 bit; i cookie scadono dopo 18 mesi, nei casi di più lunga conservazione. Una contingenza equa a parere di Google, che la ritiene indispensabile per fornire migliori servizi ai propri utenti, una contingenza che non accontenta però le autorità dell’Unione Europea, che lamentano una eccessiva invadenza da parte dei motori di ricerca, resistenti ad allinearsi alle linee guida locali.

Alle richieste di trasparenza delle istituzioni Google risponde cercando di garantire all’utente la massima libertà di scelta: Whitten illustra gli obiettivi del Data Liberation Front , progetto che permette ai cittadini della rete di esportare i dati che produce per migrare ad altri servizi o per controllarli anche in modalità offline; mostra le potenzialità della Google Dashboard , utile a verificare quali dati rendere disponibili e con che modalità; spiega che è possibile sganciarsi dal monitoraggio a sfondo pubblicitario o affinarlo sulla base dei propri interessi a mezzo Ads Preferences Manager .

L’utente e le sue ragioni, chiosa Whitten, anche ampliando lo sguardo a questione di policy, sono una componente fondamentale nel processo di miglioramento dei servizi: anche il dibattuto affaire Buzz , servizio che in prima battuta ha costretto gli utenti alla condivisione sgradita di dati forse troppo personali a proposito della propria rete di contatti, diventa un’occasione per precisare che il feedback dei cittadini della Rete rappresenta un’occasione di crescita. Accogliendo proteste e contestazioni – “gli utenti non avevano chiaro quali dati fossero condivisi” ammette Whitten – si è lavorato per modificare l’interfaccia del servizio in modo che l’utente potesse fare una scelta consapevole riguardo alla pubblicazione delle informazioni.

C’è da lavorare sulle policy, ci sono standard da definire, c’è da negoziare con gli stakeholder, e da bilanciare fra gli aspetti locali e la dimensione globale della Rete e di un colosso come Google. Ci sono dibattiti aperti come quello squarciato dal rastrellamento di dati a mezzo Google Car più attente di quanto si potesse immaginare, e questioni in sospeso come quella aperta proprio in Italia, con il caso Vividown . Ma sono aspetti che Alma Whitten affida ai legali, ai rappresentanti dell’azienda: agli ingegneri resta la sfida di organizzare l’informazione globale, interiorizzando e mettendo a frutto le pratiche dei cittadini della rete.

Gaia Bottà

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Pubblicato il
8 giu 2010
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