Nel precedente articolo della rubrica riflettevo sul progressivo cambiamento di immaginario e del significato della condivisione in rete con l’emergere dei media sociali e di ciò che è comunemente noto come web 2.0 . Di fronte alla progressiva commercializzazione degli ambienti di sharing e networking, qual è la risposta da parte di attivisti e artisti che lavorano in rete?
Come hanno mostrato la net art, l’hacker art e altre pratiche artistiche del decennio precedente, è possibile lavorare criticamente con le tecnologie della rete non solo per investigare usi e modalità di interazione sperimentali e non previsti dal lato utente/gestore, ma anche per evidenziare le possibili “falle dei sistemi”. La pratica artistica, collegandosi quindi all’attitudine hacker, diviene una strategia per immaginare diverse possibilità di espressione e di interazione mediatica, che non sempre sono esplorate dagli ambienti commerciali e dal mercato.
Molte di queste pratiche hanno evidenziato che, quando l’arte è il frutto di un lavoro indipendente, può contribuire a creare immaginario critico e nuove visioni sperimentali – e può essere un incentivo per lo sviluppo tecnologico stesso. Non a caso, una strategia del business che cerca di essere al passo con i tempi, è quella di reclutare proprio artisti, hacker e creativi per la loro capacità di creare innovazione disruptiva. È una delle strategie di Google, iniziata anche tempo fa in altri settori di mercato, come la moda: Diesel ne è stato uno dei primi esempi contemporanei (ma se vogliamo, questa attitudine era già nata negli anni Cinquanta nelle agenzie di pubblicità di Madison Avenue a New York).
L’innovazione disruptiva può prendere diverse strade, e spesso mettere di fronte a una biforcazione: da una parte il mercato riesce ad inglobare gli artisti perché ha capito le regole del gioco (e spesso le detta), dall’altra anche gli artisti possono attivarsi per conoscere queste regole, e decidere che il loro compito non è quello di seguirle, bensì di metterle in crisi. Ecco allora che nasce quello che ho chiamato arte disruptiva del business , un concetto di cui mi sto occupando in questi mesi di ricerca universitaria (vedi qui ).
Con arte disruptiva del business intendo la possibilità di agire artisticamente e attivamente all’interno del mercato per evidenziarne i limiti e, allo stesso tempo, per ricombinarne le regole dall’interno e creare nuovi scenari di sperimentazione creativa. La critica dell’economia capitalista diviene un atto performativo. Un ambito di espressione che offre scenari interessanti in questo senso è proprio quello generato dagli artisti che lavorano sul networking e il web 2.0, e che cercano di capire come i social media funzionino per esplorare nuovi territori creativi.
Facciamo degli esempi concreti. Una modalità di espressione creativa che si è mostrata valida sin dai tempi delle Avanguardie artistiche è quella che coinvolge la nostra identità. Negli anni Ottanta-Novanta, esempi di identità collettive come Monty Cantsin nell’ambito del circuito Neoista , e il nome multiplo Luther Blissett , ci dimostrano la validità, e anche il piacere/effetto ludico, di trasformare, sviluppare e diffondere le nostre identità mediante una pratica collettiva. Pratiche identitarie che sono state ben assimilate anche nell’ambito attivista e hacker, come dimostrano le esperienze di San Precario e del suo anagramma Serpica Naro , verso la metà del Duemila.
C’è chi ha raccolto la “sfida” e ha dimostrato che non sempre queste piattaforme sono blindate come mostrano di essere, e che permettono di giocare e sperimentare per sottolinearne i limiti, senza entrare necessariamente nell’illegalità (affronterò più diffusamente il tema della legalità/illegalità nei prossimi appuntamenti).
Alla fine del 2008 Anna Adamolo fa la sua apparizione sul social network Facebook. Una identità collettiva e fittizia nata per protestare contro la legge 133 della riforma Gelmini. Anna Adamolo è l’anagramma di Onda Anomala, il movimento degli studenti, ricercatori e precari che ha invaso le piazze italiane nell’autunno 2008. Con la richiesta di “diventare Anna Adamolo”, molte persone hanno cambiato la propria identità su Facebook, adottando le sembianze di questa figura collettiva. Una figura che, nell’immaginario di chi in quei giorni protestava contro la riforma Gelmini, rappresentava il nuovo Ministro Onda a tutela dei precari (l’opposto del Ministro ombra). Ma non solo: la comparsa di Anna Adamolo avviene anche all’interno di Facebook. Viene creato un fake (finto) account di Facebook di Gelmini che, il giorno della manifestazione nazionale a Roma il 14 novembre 2008, viene trasformato in quello di Anna Adamolo (giorno anche del lancio del sito clone del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, che raccoglierà nelle settimane successive molte testimonianze delle voci della controriforma). Un gesto che segna la nascita di Anna Adamolo come nuovo personaggio collettivo in cui immedesimarsi – presto diventato simbolo del movimento per il ritiro della Legge 133 e della legge Gelmini, come descritto nel suo blog e nell’ articolo che vi invito a leggere per approfondire il contesto dell’operazione.
Circa un anno dopo, altri due progetti che giocano sulle identità nei social network si diffondono in Facebook e in rete: Seppukoo , creato da Les Liens Invisibile e Web 2.0 Suicide Machine , creato dal collettivo Moddr.net . Ambedue i progetti invitano gli utenti di Facebook (e nel caso della Suicide Machine anche di LinkedIn, MySpace, e Twitter), a commettere un simbolico suicidio virtuale, rimuovendo il proprio profilo dal social network. Ambedue si basano sulla possibilità di sperimentare con le applicazioni, sviluppate esternamente al server centrale, che si possono implementare indipendentemente e offrire come possibilità aggiuntiva di interazione per gli utenti registrati. Le application sono infatti un ambito di ricerca interessante nei social media, perché come la storia dei due progetti ci dimostra, permettono di analizzare i limiti e i bug dei sistemi centrali, e le loro strategie non evidenti a tutti gli utenti. Per esempio, una volta registrati su Facebook non è possibile cancellare la propria presenza del tutto, e pur se decidiamo di rimuovere il nostro profilo, tutti i nostri dati, foto, video e testi, rimarranno per sempre nel server di Facebook – basterà solo un click per riattivare il nostro account e riavere tutti i nostri dati a disposizione, come Seppukoo ci dimostra.
Ma ambedue i progetti ci dimostrano anche che piatteforme come Facebook non sono cosi liberali come sembrano, e la conseguenza per gli autori di Seppukko e Suicide Machine è stata quella di ricevere una lettera di cease & desist da Facebook Inc ( qui la lettera ricevuta dal gruppo Les Liens Invisibles). La motivazione? La tutela della privacy degli utenti e dei loro dati, quando nessuno dei due progetti aveva in nessun modo utilizzato i dati contrariamente alla volontà degli utenti stessi, e si è apertamente dichiarato come progetto di net art.
L’intervento legale di Facebook è un paradosso che ci fa sorgere la domanda: a chi appartengono i nostri dati personali se, una volta immessi nei server di queste piattaforme, perdiamo anche il diritto – e il piacere – di sperimentare con la nostra identità? E soprattutto, se la nostra identità diviene una merce da rivendicare come proprietà attivando una battaglia legale, qual è il prezzo che paghiamo per la nostra presenza nei social network?
Tatiana Bazzichelli
www.tatianabazzichelli.com
Fonte immagini:
“Neoist Altar”: disegno di Pete Horobin, ottavo festival di appartamento del Network Neoista, Londra, maggio 1984.
San Precario
Anna Adamolo